Abstract delle relazioni

Abstract delle relazioni


lunedì 3 giugno, ore 15.00: I sessione
La disciplina penale dell’informazione societaria
coordinano i Proff. Luigi Foffani e Marco Gambardella

Dalila Federici – Il requisito della materiality e la disciplina penale dell'informazione societaria

La relazione ha come obiettivo quello di verificare l’influenza della nozione di materiality nella disciplina penale dell’informazione societaria. 
Nello specifico, dopo aver affrontato il significato del concetto di materiality nell’ordinamento statunitense, si tenterà di comprendere se e come, lo stesso, sia penetrato nelle fattispecie di reato attinenti all’informazione societaria. 
Dopo tale tentativo, si cercherà di accertare se la tipologia di agente modello, nei confronti del quale l’informazione è diretta, sia una figura unitaria o piuttosto diversificata, e quindi modellata, sulla singola figura criminosa.

Fabio Siena – Teoria del falso e valutazioni. Rilievi critici alla nozione di vero legale

La relazione offre una rilettura critica del concetto di vero legale, laddove utilizzato dalla giurisprudenza per estendere la portata dei reati di falso agli enunciati contenenti giudizi discrezionali, pareri tecnico-scientifici, valutazioni estimative. La finalità della tesi estensiva è quella di creare un presidio di tutela penale in settori particolarmente importanti e delicati per la natura degli interessi in gioco (dalla corretta formazione dei valori di bilancio nelle società commerciali, alla serietà delle relazioni tecniche relative ad autorizzazioni edilizie e paesaggistiche). L’interpretazione fornita, però, passa per la creazione in via pretoria di un "falso per inosservanza", che si allontana dalla tradizionale teoria linguistica della “verità come corrispondenza” e dà vita a un ibrido. Il risultato è un agile (quanto imprevedibile e incontrollabile) strumento sanzionatorio in bianco, tanto più pericoloso in quanto spesso rapportato a un contesto di parametri tecnici e prassi del tutto vaghe, contraddittorie e mutevoli. 
La questione è stata oggetto di una forte attenzione dopo l’ultima riscrittura del reato di false comunicazioni sociali, cui è seguita una pronuncia delle Sezioni Unite nel 2016. Con riferimento al reato di cui all’art. 480 c.p. e al tema delle attestazioni di conformità legale delle c.d. cessioni di cubatura, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite con un’ordinanza depositata l’8 marzo 2019. 

Mario Pesucci – L’abuso dell’informazione privilegiata da parte del suo ideatore: l’insider di se stesso

La figura criminosa dell’insider trading, sanzionata sia a livello penale che amministrativo, è incentrata sullo sfruttamento da parte di un soggetto qualificato, in virtù della posizione che riveste o dell’attività che svolge, di informazioni privilegiate, ossia non disponibili agli altri operatori del mercato. Qualora il descritto sfruttamento sia posto in essere dallo stesso ideatore dell’informazione a carattere privilegiato si suole parlare di insider of itself. L’affermata punibilità di tale soggetto passa, in particolare, attraverso un’interpretazione, secondo alcuni più teleologica che letterale, del termine “informazione”, intesa quale sinonimo di conoscenza. In ambito penalistico, ci si interroga quindi se un tale tipo di interpretazione sia rispettosa di alcuni principi cardine della materia, in particolare in termini di legalità, determinatezza, offensività e colpevolezza.

Andrea Pantanella – I delitti di false attestazioni nel Codice della crisi d'impresa

La relazione intende affrontare la disciplina, di particolare attualità, attinente ai delitti di false attestazioni nel nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza.
In primo luogo, verranno inquadrati gli odierni reati di false attestazioni – segnatamente le fattispecie criminose di cui agli artt. 236-bis e 236, co. 1, legge fallimentare (artt. 341 e 342 c.c.i.) – nelle loro origini e matrici storiche. 
In secondo luogo, la relazione si pone l’obiettivo di inserire all’interno del discorso il nuovo Codice della crisi, in modo da individuare le conseguenze giuridiche, che, in via indiretta, si avranno con riferimento ai delitti in esame.
Infine, verranno prese in considerazione le nuove figure di falso nel procedimento di esdebitazione (art. 344 c.c.i.) e di falso nelle attestazioni dei componenti dell’OCRI (art. 345 c.c.i.).

martedì 4 giugno, ore 9.00: II sessione
Le recenti direttrici nel contrasto alla corruzione
coordinano i Proff. Gabriele Fornasari e Gian Luigi Gatta

Luigi Scollo – La repressione della corruzione internazionale nel settore delle multinazionali

Il Fondo Monetario Internazionale ha definito la corruzione "una piaga dilagante" avvertendo circa gli effetti nefasti sull'economia e sull'equità sociale. Molte organizzazioni internazionali sono impegnate nella promozione di politiche anti-corruzione, eppure le statistiche mostrano un fenomeno in costante aumento, anziché in diminuzione. L'Italia, maglia nera in Europa, ha attuato diverse riforme negli ultimi anni, quasi tutte concentrate nella repressione della corruzione domestica, mentre poca attenzione è stata riservata alla corruzione internazionale. L'aumento dei traffici commerciali tra paesi e l'aumento degli episodi di corruzione transnazionale pongono allora pressanti interrogativi e sollecitano interventi di riforma. Nel panorama internazionale, l'unico attore che sembra reprimere duramente ed efficacemente questo fenomeno sono gli Stati Uniti d’America, che prevedono un moderno armamentario di contrasto alla corruzione internazionale nelle multinazionali. Oltre a rappresentare un interessante modello comparatico, l’armamentario statunitense presenta aspetti peculiari e problematiche che toccano da vicino anche il penalista italiano: nell'ultimo decennio, a cadere nelle maglie del sistema anti-corruzione del Dipartimento di Giustizia USA sono state soprattutto le multinazionali straniere, comprese quelle italiane.

Anna Francesca Masiero – La legge “Spazzacorrotti”: tra tecniche investigative e misure premiali

Il mio intervento verterà sulle strategie politico-criminali di cui il legislatore si è di recente avvalso per far fronte al dilagante fenomeno corruttivo in Italia. Queste strategie – definite differenziate – sono quelle dell’infiltrazione nel gruppo criminale tramite agenti sotto copertura e della premialità, estese dalla legge n. 3 del 2019 anche al settore dei reati contro la Pubblica Amministrazione. Tutt’altro che sconosciute al nostro ordinamento, esse erano state finora sperimentate in relazione a fenomeni criminosi assai diversi rispetto a quello in parola, il quale – come si vedrà – non appare un terreno fertile per il ricorso a queste tecniche. Infatti, siffatte opzioni di politica criminale, rispecchiando la tendenza del legislatore italiano a rispondere alle emergenze del momento (vere o presunte) attraverso l’adozione di strumenti alternativi rispetto a quelli ordinari, pongono svariati problemi di tenuta con un paradigma di diritto penale costituzionalmente orientato, in relazione tanto ai principi fondamentali, quanto alle funzioni della pena. Esse danno vita così ad un vero e proprio doppio binario, il quale il più delle volte finisce per derogare alle regole classiche in virtù di un efficientismo che tuttavia costa, specialmente in termini di garanzie.  

Nicola Maria Maiello – I rapporti tra il nuovo art. 316-ter c.p. e il delitto di peculato

Nel clima di infuocate discussioni che ha segnato l’iter parlamentare dell’ultima riforma in materia di corruzione (L. 9 gennaio 2019, n. 3), si inserisce l’inopinata introduzione, nell’ultimo periodo del primo comma dell’art. 316-ter c.p., di una circostanza aggravante speciale ad effetto speciale, consistente nella rideterminazione in peius della cornice edittale – da uno a quattro anni di reclusione – “se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio con abuso della sua qualità o dei suoi poteri”.
Scopo della presente relazione è il tentativo di inquadrare, i rapporti tra il risultato di questo intervento di riforma (in altri termini, la fattispecie aggravata dell’art. 316-ter c.p., ultimo periodo del primo comma), e talune altre figure di reato inserite nel titolo II del codice penale. È agevole, infatti, notare come anche quest’ultima modifica – secondaria nel contesto complessivo di riforma e relativa ad una disposizione che non ha trovato particolare successo nell’esperienza della sua applicazione – accresce la complessità e la disarmonia sistematica che connotano lo statuto dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., caratterizzata, com’è noto, da una forte frammentarietà normativa che apre le porte a ricorrenti situazioni di overlapping.
L’introduzione della menzionata aggravante potrebbe, tuttavia, in una prospettiva ermeneutica di risistemazione degli ambiti di operatività dei singoli reati rispetto ai quali si verificano episodi di sovrapposizione normativa – apparente e/o reale – dare luogo ad un ormai frequente fenomeno di eterogenesi dei fini. 
Il primo obiettivo della relazione è la confutazione delle tesi che, anche prima della riforma, sostenevano la configurabilità del delitto di cui all’art. 316-ter c.p. pure quando fosse stato commesso dal p.u. o dall’i.p.s., per il tramite della circostanza aggravante comune contemplata dall’art. 61, n.9, c.p. 
Contro tale tesi è però schierata la giurisprudenza che, servendosi di una interpretazione sistematica, nega l’applicabilità dell’art. 316-ter c.p. ai casi nei quali l’autore sia un soggetto qualificato. 
In un secondo passaggio, si intende scartare la riconducibilità della novella al fenomeno della specialità sincronica favorevole sopravvenuta, disciplinata dall’art. 2, comma quarto, c.p., nei rapporti con l’art. 314 c.p. Attraverso una attenta lettura delle relazioni di continenza tra le fattispecie, sembra si possa affermare che gli ambiti di tipicità solo apparentemente arrivino a toccarsi, non invece a intersecarsi in una vicenda di specialità. I due reati considerati, a ben vedere, si differenzierebbero già nei loro presupposti applicativi: nel caso del peculato, viene richiesta la disponibilità, giuridica o materiale, delle res; nell’ipotesi della indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, invece, il soggetto non gode del “possesso” delle utilità che poi “consegue indebitamente”. Ne deriva una diversità strutturale tra le due condotte, che resta nonostante il rischio di un consolidamento di interpretazioni tassativizzanti della giurisprudenza che forzano il testo di legge: nel peculato l’appropriazione manterrebbe la propria struttura ‘bifasica’ – espropriativa ed impropriativa –; nell’art. 316-ter c.p. la fattispecie tipica si perfeziona attraverso una condotta ‘ottenitiva’ e decettiva, a forma vincolata.
La soluzione che sembra più aderente allo spirito della riforma e coerente con la lettera delle disposizioni del peculato e dell’abuso d’ufficio, sta nel qualificare la nuova aggravante in rapporto di specialità unilaterale proprio con l’art. 323 c.p., nel cui spettro dovrebbero confluire anche le condotte distrattive, le stesse che l’art. 316-ter c.p. intenderebbe sanzionare quando non commesse attraverso modalità fraudolente, tipiche degli artifici e raggiri che strutturano la truffa ex art. 640-bis c.p.
Partendo tale ricostruzione, infine, pare opportuno analizzare i profili di carattere intertemporale che la novella comporta rispetto a quelle condotte ottenitive di pubbliche sovvenzioni, poste in essere attraverso le modalità indicate dal testo dell’art. 316ter c.p., da parte di soggetti qualificati o in vicende in cui il p.u o i.p.s. ha svolto il ruolo di concorrente.

Maria Giovanna Brancati – Corruzione privata e responsabilità dell’ente: valutazioni tra efficacia e opportunità politico-criminale

L’intervento, dopo una premessa atta ad inquadrare i fenomeni di corruzione tra privati nel contesto in cui agiscono, si propone di fornire una lettura critica in termini di efficacia dell’armamentario legislativo-sanzionatorio che ne definisce i contorni, con specifico riferimento allo strumento della cd. responsabilità amministrativa da reato ex D.lgs. 231/2001. Il focus sarà quindi rivolto da un lato alle criticità derivanti dalla difficoltà di predisposizione di un modello organizzativo che definisca il rischio-reato nei casi di corruzione privata; e, dall’altro, a una più generale riflessione sulla opportunità di una scelta politico-criminale di puntuale criminalizzazione dei fatti di corruzione privata, a fronte di una fattispecie principalmente imperniata su un disvalore “privatistico”.

Gaia Spinelli – Le modifiche della legge “Spazzacorrotti” all'art. 4-bis ord. penit.

Il presente intervento si propone di fornire una riflessione critica relativa alle principali problematiche che fin dalla sua introduzione affliggono l’art. 4-bis ord. penit., prendendo le mosse dall’ultimo intervento legislativo che, in ordine cronologico, ne ha comportato la modifica: la legge n. 3/2019, meglio nota come legge “Spazzacorrotti”.
La suddetta riforma costituisce infatti l’occasione perfetta per riportare sotto la luce dei riflettori mediatici le criticità di un articolo che, originariamente pensato ed introdotto come mezzo eccezionale di contrasto ai gravi reati di criminalità organizzata (Tale era infatti la prima formulazione dell’art. 4-bis ord. penit., prevista dal d.l. n. 152/1991), ha visto estendere negli anni il suo ambito applicativo – nonostante i contrari interventi, in senso restrittivo, ad opera della Corte costituzionale – fino a ricomprendere le più svariate categorie di reati. 
Da ultimo, la legge “Spazzacorrotti” ha modificato il primo comma dell’art. 4-bis inserendo tra i reati ostativi di prima fascia anche i più gravi delitti contro la P.A.: in seguito alla novella, anche per tali reati opera dunque la preclusione alla sospensione dell’ordine di carcerazione (ai sensi dell’art. 656 c.p.p., anche per condanne al di sotto dei quattro anni e fatta salva la collaborazione con la giustizia) e la possibilità di accedere ad una misura alternativa senza fare ingresso in carcere; l’unico modo di superare la preclusione – e la relativa presunzione di pericolosità dei condannati per tali reati - consiste oggi nel porre in essere una delle condotte collaborative previste all’art. 323-bis c.p.
Tale ulteriore estensione dell’ambito di applicabilità della disciplina dell’art. 4-bis ord. penit. ha determinato un nuovo riaffiorare di antiche problematiche che riguardano, in particolare, due profili.
Il primo concerne la legittimità, sotto il profilo della ragionevolezza, dell’estensione ai white collar crimes del regime preclusivo di cui alla norma in oggetto, con conseguente applicazione di una presunzione di pericolosità superabile solo mediante una condotta collaborativa di dubbia realizzazione pratica.
Il secondo profilo critico riguarda invece il regime intertemporale della novella legislativa: in mancanza di qualsiasi disposizione transitoria, infatti, è necessario interrogarsi sulla possibilità di applicare con effetto retroattivo una norma con evidenti effetti in malam partem. La macro-questione all’interno della quale si iscrive il tema attiene alla controversia circa la natura sostanziale o processuale delle norme di esecuzione penale che reca con sé, conseguentemente, il dubbio relativo all’applicabilità alle stesse della garanzia dell’irretroattività.
A fronte di una consolidata giurisprudenza di stampo rigidamente formalistico, che da lungo tempo sostiene la natura processuale delle norme di esecuzione penale (si segnala in tal senso la pronuncia delle SS.UU. n. 24561/2006), proprio in seguito all’entrata in vigore delle modifiche operate sull’art. 4-bis dalla legge “Spazzacorrotti” pare si stia diffondendo nelle aule giudiziarie la tendenza ad un orientamento costituzionalmente orientato, che per stabilire la natura delle norme di esecuzione guarda agli effetti sostanziali delle stesse, più che ad un loro inquadramento formale (In tal senso, dopo le pronunce del Tribunale di Napoli e del G.I.P. di Como, v. Cassaz. n. 12541/2019). Ma vi è anche una seconda via che le Corti stanno iniziando a percorrere: quella di sottoporre al vaglio della Corte costituzionale l’art. 1, co. 6, della legge “Spazzacorrotti”; tre in meno di una settimana sono state infatti le ordinanze di rimessione avanzate nel mese di aprile, rispettivamente dai Tribunali di Napoli, Lecce e Venezia.
Le modifiche introdotte della legge n. 3/2019 possono – ed anzi, auspicabilmente devono – rappresentare pertanto l’occasione per portare un’attenzione nuova sulle criticità poste dall’art. 4-bis ord. penit., le cui radici affondano in terreni ben più profondi ma alle quali, forse, è mancata fino ad ora la linfa vitale della diffusione mediatica.

Samuel Bolis – La confisca senza condanna del prezzo e del profitto dei reati corruttivi

La confisca senza condanna ha assunto negli ultimi tre decenni una posizione centrale nelle scelte di politica criminale del legislatore volte a contrastare l’accumulazione dei proventi da reato. Il paradigma della confisca senza una condanna formale, in estrema sintesi, è stato inizialmente concepito per la confisca obbligatoria della cosa intrinsecamente pericolosa. Successivamente lo stesso paradigma è stato applicato anche nelle altre ipotesi in cui la legge prevede una confisca obbligatoria: nei confronti del prezzo del reato, per disposizione generale del codice penale; nei confronti del prodotto e del profitto del reato, per disposizioni contenute nella parte speciale del codice e nella legislazione complementare di recente introduzione. Nel solco di questa evoluzione si colloca, in particolare, l’introduzione dell’art. 578 bis nel codice di procedura, avvenuta nel 2018, che regola espressamente la confisca per taluni reati dichiarati estinti per prescrizione o per amnistia, tra i quali spiccano quelli di natura corruttiva per via del richiamo all’art. 240 bis c.p.
La giurisprudenza ha nel tempo trattato in modo contrastante questa materia: da un lato ha posto dei limiti ad una interpretazione estensiva della confisca senza condanna, imponendo ad esempio la necessità di un accertamento sostanziale della materialità del reato e della sua componente soggettiva a seguito di un contradditorio con la parte; da un altro lato ha però esteso l’oggetto dell’apprensione, giudicando come diretta anche la confisca che abbia ad oggetto beni che pur essendo nella disponibilità del reo sono in realtà di proprietà di soggetti terzi, come ad esempio le persone giuridiche. 
Una siffatta confisca senza condanna entra però in tensione con taluni principi e diritti fondamentali, specialmente di fonte convenzionale: in particolare, con i principi di legalità e di presunzione di innocenza, con il diritto alla proprietà privata e con il divieto di bis in idem. 

martedì 4 giugno, ore 14.30: III sessione
Nuove tecnologie e diritto penale
coordinano i Proff. Michele Papa, Adelmo Manna e Lorenzo Picotti

Marta BarcellonaCyberlaundering: ruolo e responsabilità degli exchangers e dei wallet providers

L’elevato livello di (pseudo) anonimato offerto, la decentralizzazione del sistema Blockchain e la disintermediazione delle operazioni rendono le criptovalute un veicolo particolarmente attraente per il trasferimento o la sostituzione dei proventi di origine delittuosa, bypassando i controlli “tradizionali”.
Pertanto, il potenziale impatto dell’uso improprio di tali strumenti al fine di compiere operazioni di riciclaggio induce a compiere una riflessione sulle posizioni delle nuove figure in gioco, in particolare sui prestatori di servizi coinvolti nelle operazioni di cambio – sia nelle fasi di entry (da valuta fiat a criptovaluta), sia nelle fasi di exit (da criptovaluta a valuta fiat) – comunemente chiamati exchangers, e sui soggetti che forniscono servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto di terzi, i c.d. wallet providers.

Beatrice Panattoni – Il fatto tipico oggettivo dei reati commessi nel Cyberspace

Dall’analisi di alcune fattispecie, in particolare i reati cibernetici commessi attraverso l’immissione di un determinato contenuto illecito nel web (diffusione di materiale pedopornografico, apologia e istigazione ai delitti di terrorismo, diffamazione), emerge come, a partire dal punto di vista fenomenologico, gli elementi del fatto tipico dei reati che si consumano nel Cyberspace vengano in essere grazie e attraverso il funzionamento degli elementi tecnologici. In tali reati infatti, la componente tecnico-informatica, oltre a costituire il mezzo attraverso il quale la condotta incriminata viene posta in essere, assume anche la valenza di elemento costitutivo in relazione alla fattispecie legale di reato stessa.
Tra le conseguenze alle quali conduce tale considerazione assumono particolare rilevanza quelle connesse allo studio del momento consumativo del reato. Si cercherà pertanto, ripercorrendo le diverse soluzioni prospettate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in materia, di analizzare i riflessi che la questione riguardante la qualificazione della fase di permanenza del contenuto illecito in rete – che potrebbe essere considerata quale parte integrante del fatto tipico di reato o mero postfactum – assume nella definizione della consumazione in tali fattispecie incriminatrici.

Federico La Vattiata – Robotica e intelligenza artificiale: una nuova "sfida" per il diritto penale

Il prepotente progresso tecnologico del nostro tempo pone il diritto penale di fronte ad una nuova sfida: quella della robotica e dell’intelligenza artificiale (di seguito AI).
Si tratta in realtà di questioni non totalmente nuove. Il pensiero va alla lezione – eredità di inestimabile valore scientifico, oserei dire – di Federico Stella, contenuta nel suo Giustizia e modernità. I «rischi della modernità», che egli si proponeva di analizzare con vigore e senza il timore di eventuali nodi problematici, assumono oggi la forma dei pericoli legati all’uso di tali nuove tecnologie. In fondo, anche in questa materia si avverte la necessità di dare attuazione a quella inscindibile coppia concettuale che dovrebbe “illuminare il sentiero, talvolta impervio e oscuro” dell'interprete: «la protezione dell’innocente e la tutela delle vittime».
 Lo sviluppo del machine-learning e del deep-learning è ormai tale che le macchine sono in grado non solo di eseguire le istruzioni ad esse impartite, ma altresì di apprendere autonomamente un numero potenzialmente incalcolabile di dati, in definitiva dando luogo a un procedimento di vero e proprio auto-apprendimento. In altre parole, esse, a partire da un certo numero di dati (corretti o meno: è proprio questo il punctum dolens!) – c.d. in-put – pervengono a risultati (talvolta decisioni che incidono su beni primari!) – c.d. out-put – potenzialmente non prevedibili, ma la cui correttezza, in ragione del rango dei Rechtsgüter coinvolti, ad avviso di chi scrive meriterebbe una verifica “a valle”.
In particolare, il settore dell’AI (rectius delle sue più importanti applicazioni – vale a dire: self-driving cars/dispositivi aeronautici, armi letali automatiche e devices medici – nonché degli eventi lesivi che ne possono derivare) mette a dura prova consolidate categorie dogmatiche, in ordine alla cui tenuta si vuole qui ragionare. 
A tal riguardo, è d’uopo fare subito chiarezza: non tutte (o non tutte in egual misura) le applicazioni appena menzionate sono idonee ad essere trattate facendo uso di uno strumento penale costituzionalmente orientato, pur rispettoso del canone di extrema ratio
Un ulteriore punto non può rimanere negletto: le soluzioni cambiano a seconda che ci si ponga in una logica de lege lata ovvero de lege ferenda
Ragioni di ordine espositivo e di necessaria circoscrizione dell’oggetto della relazione impongono un’esposizione (inevitabilmente sommaria) dei profili – tra i vari i temi che vengono in considerazione – probabilmente più rilevanti (ma ogni smentita è benvenuta): causalità, nesso di rischio, dolo/colpa.
Cionondimeno, “a monte”, un quesito – forse il quesito – merita risposta: è necessario assegnare un ruolo in materia allo strumento penale? Ed eventualmente con quali funzioni? Ed entro quali limiti?

Mattia Di Florio – Imputabilità e neuroscienze: brevi considerazioni con particolare riguardo alla ludopatia

La relazione dal titolo “Imputabilità e Neuroscienze: brevi considerazioni con particolare riguardo alla ludopatia” si sofferma sulla problematica dell’imputabilità che costituisce un terreno “fertile” per l’interazione tra il diritto penale e le neuroscienze cognitive. Un “caso” in cui sperimentare il possibile rilievo delle neuroscienze nel diritto penale è costituito dalla ludopatia. Secondo ormai numerose dottrine le neuroscienze non sono in grado di modificare il concetto di imputabilità, ma potrebbero contribuire a “rafforzare” la prova della capacità di intendere e di volere, anche alla luce delle coordinate ermeneutiche tracciate dalle Sezioni Unite Raso
In un’ottica diversa si colloca, invece, la più recente giurisprudenza secondo cui, ammesso che il soggetto presenti un’anomalia psichica e che tale anomalia sia riscontrata anche attraverso le moderne diagnostiche scientifiche, una cosa sarebbe la compulsione al gioco, altra l’assenza di responsabilità per il delitto contro il patrimonio.

mercoledì 5 giugno, ore 9.00: IV sessione
La colpevolezza: presupposti sostanziali e modelli di accertamento
coordinano i Proff. Alberto Cadoppi, Alessandro Melchionda e Vico Valentini

Valentina Felisatti – Il disastro ambientale-sanitario tra responsabilità penale e State liability

Il frequente verificarsi di catastrofi ambientali-sanitarie – consistenti nell’emissione seriale di sostanze tossiche nell’ambiente con conseguente pregiudizio per la salute pubblica – ha come effetto la costante ricerca di un responsabile al quale addebitare il fenomeno disastroso. Oggetto della relazione sarà il disastro ambientale-sanitario in una duplice prospettiva: quella della responsabilità penale, da una parte; quella della responsabilità statale per violazione degli articoli 2 e 8 CEDU, dall’altra. 
Quanto al primo profilo, l’intervento verterà sulle problematiche legate al criterio oggettivo di imputazione rispetto a quei casi in cui l’evento dannoso sia spiegabile attraverso studi scientifici di natura epidemiologica, i quali – se correttamente condotti – sono in grado di dimostrare (solamente) un aumento della mortalità o della morbilità nelle zone interessate dalla contaminazione ambientale.
Quanto al secondo profilo, invece, si cercherà di leggere il fenomeno alla luce diritti umani consacrati negli articoli 2 e 8 CEDU e dei conseguenti obblighi positivi che incombono sugli Stati. Più in particolare, anche attraverso il recente caso Cordella e altri c. Italia, si metterà in evidenza come la violazione del diritto alla vita e alla vita privata possa essere scongiurata solo adempiendo ad obblighi positivi volti alla prevenzione dei fenomeni disastrosi, ancor prima che ad obblighi di tutela penale. In questo contesto, si tenterà di evidenziare il ruolo attribuito dalla Corte EDU alle evidenze scientifiche epidemiologiche.

Carolina Buzio – La responsabilità penale nell'attività medica in équipe: vecchie e nuove problematiche

La relazione affronta la tematica dei confini individuali della responsabilità colposa nell’attività medica in équipe con particolare riguardo alla configurabilità di obblighi “di controllo” dell’altrui operato avulsi da posizioni (di garanzia) di vigilanza e, più in generale, alla tentazione della giurisprudenza di “spersonalizzare” la responsabilità penale addossandola collettivamente all’équipe,  “da considerare una entità unica e compatta e non come una collettività di professionisti in cui ciascuno è tenuto a svolgere il proprio ruolo, salvo intervenire se percepisca l'errore altrui” (così Cass. pen., sez. IV, 23 gennaio 2018, n. 22007). Per evitare il rischio di addebiti da “mera partecipazione al gruppo”, “da posizione” o persino per “fatto altrui”, si evidenzia la necessità di ancorare la valutazione della responsabilità colposa al parametro normativo, tenendo conto del contributo apportato da ciascun medico, del ruolo rivestito e degli specifici compiti ad esso attribuiti.

Marina Poggi d'Angelo – Il dolo nei reati di pericolo: il caso della bancarotta

La relazione si pone l’obiettivo di indagare il dolo nei reati di pericolo, con particolare riferimento ai delitti di bancarotta. 
L’ambito del diritto penale fallimentare, invero, sembra essere terreno di elezione per poter verificare in che modo la tipicità oggettiva dell’illecito di pericolo si rifletta anche sul piano soggettivo e, conseguentemente, come il variare del sostrato di fatto della tipicità modifichi l’oggetto del dolo rispetto ai contrapposti reati di danno. 
Si cercherà inoltre di argomentare nel senso che, nei delitti di bancarotta, la selezione delle condotte conformi al tipo descritto dal legislatore debba avvenire prima sul piano “oggettivo”, mediante la verifica della concreta idoneità delle stesse a porre in pericolo l'integrità della garanzia patrimoniale, per poi investire il profilo “soggettivo”, dovendo tale idoneità essere rappresentata da parte dell'agente.

Marco Cecchi – Sulla c.d. "motivazione rafforzata": forza persuasiva superiore, presunzione di innocenza e ragionevole dubbio

Ci sono luoghi sistematici del Diritto e della Procedura penale in cui si ricorre al concetto di “motivazione rafforzata”. Si tratta di una formula con la quale, da un lato, si esorta la riflessione del giudicante verso specifici profili giuridici e, dall’altro lato, si pretende che il giudice elabori un impianto motivazionale irrobustito rispetto a tali questioni o in merito a istituti di diritto sostanziale o di diritto processuale la cui verifica, in quella materia o per quella fattispecie, si ritiene imprescindibile per la correttezza logica e la legittimità giuridica dell’accertamento penale nel suo complesso. L’obbligo di motivare in modo rinforzato si risolve dunque in un’approfondita attività di argomentazione circa determinati aspetti e problematiche giuridiche, la cui assenza mina la validità della decisione (fino a inficiarne la struttura medesima). In alcuni casi, peraltro, quest’operazione giustificatoria astratta richiede, come presupposto ad essa prodromico, il compimento in concreto di ineludibili attività probatorie (utili a garantire la tenuta e la bontà conoscitiva della pronuncia giurisdizionale, così rinsaldata).

mercoledì 5 giugno, ore 14.30: V sessione
Laicità e diritto penale
coordinano i Proff. Alessandro Bernardi, Stefano Canestrari e Cristiano Cupelli

Martina Salerno – La penalizzazione del cliente nella legge francese sulla prostituzione: la decisione del Consiglio costituzionale 

La prostituzione è una delle tematiche più controverse del discorso pubblico contemporaneo e, come noto, le scelte legislative adottate dai vari Stati sono molto diverse tra loro. Qual è l’approccio dell’ordinamento francese al fenomeno della prostituzione e alle condotte che orbitano attorno al mercato del sesso a pagamento? La proibizione delle maisons closes avvenuta con l’adozione della legge ‘Marthe Richard’ del 13 aprile 1946 inaugurò in Francia il passaggio da un modello di regolamentazione della prostituzione regolamentarista ad uno abolizionista. Ben settant’anni più tardi, un più recente intervento legislativo – la legge n° 2016-444 del 13 aprile 2016 – ha segnato un’altra importante tappa nel trattamento giuridico-penale di tale attività, attraverso la scelta di un approccio di stampo neo-proibizionista. Tale riforma, fortemente criticata per aver introdotto nel codice penale francese la penalizzazione dell’achat d’un acte sexuel, è stata recentemente sottoposta al vaglio del Consiglio costituzionale. Quest’ultimo è stato, infatti, investito di una questione prioritaria di costituzionalità (QPC) sulla conformità ai diritti e alle libertà riconosciute e garantite dalla Costituzione di alcune disposizioni del codice penale, come modificate dalla legge del 2016, tra cui l’art. 611-1 CP che prevede la penalizzazione del cliente della persona che si prostituisce. In gioco i diritti dell’autonomia personale, del rispetto della vita privata, della libertà sessuale, della libertà contrattuale e della libertà d’impresa delle persone che si prostituiscono. La decisione n° 2018-761 QPC adottata l’1 febbraio 2019 dal giudice delle leggi francese è, per diversi aspetti, insoddisfacente e discutibile. Il Consiglio, lungi dal mettere in discussione la scelta di politica criminale adottata dal legislatore nel 2016, ha infatti convalidato la penalizzazione del cliente, adottando argomentazioni ‘sbrigative’ e poco convincenti e ricorrendo, per di più, al solenne principio della dignità della persona umana, argomento ormai divenuto ‘di tendenza’ nell’ambito del discorso in materia di prostituzione. Tale decisione ha, dunque, confermato una scelta legislativa che si vanta di combattere contro la tratta di esseri umani, ma che in fin dei conti risulta ‘falsamente protettiva’ delle persone coinvolte nel rapporto prostituzionale e che non fa che impedire – seppur indirettamente – l’esercizio della stessa attività prostituzionale.

Claudia Ciulli – Le recenti riforme in tema di produzione, commercio e consumo di marijuana

In seguito all’approvazione del Michigan Regulation and Taxation Marihuana Act, è salito a dodici il numero degli Stati che hanno inaugurato un mercato legale della marijuana. L’ondata riformistica che in appena sei anni ha travolto il continente americano da Nord a Sud, dall’Uruguay al Canada, non manca di gettare i propri riverberi nel resto del mondo, facendo germinare sempre maggiori dubbi sul presupposto, alla base del proibizionismo, secondo cui il mercato della cannabis lederebbe interessi fondamentali, quali la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle nuove generazioni.
Tre recenti pronunce di organi di giustizia costituzionale paiono sintomatiche di tale tendenza –e suggerire altresì quale piega potrebbe prendere il dibattito anche in altri Stati. Si allude alle sentenze rese dalle Corti costituzionali del Sud Africa, della Georgia e del Messico, rispettivamente nei mesi di luglio, settembre e ottobre 2018, che hanno dichiarato l’illegittimità di quelle disposizioni dei rispettivi ordinamenti che comminano sanzioni, anche di natura meramente amministrativa, per l’utilizzo della marijuana, sul presupposto che il consumo di tale sostanza costituisca parte integrante del diritto al libero sviluppo della personalità, e che i danni alla salute da essa prodotti si riversino esclusivamente sul consumatore -senza dunque ripercussioni sulla collettività che determinino l’insorgere di un interesse pubblico al contrasto del consumo. Tali sentenze paiono inoltre ammiccare all’idea che la legalizzazione, attraverso una rigorosa regolamentazione del mercato, possa anzi arrecare benefici alla collettività; idea, quest’ultima, che risulta emblematicamente riassunta dal Cannabis Act, promulgato in Canada lo scorso giugno, che, nel legalizzare la produzione, la commercializzazione ed il consumo della marijuana, menziona espressamente la tutela della salute e della sicurezza pubblica fra i propri purposes.
Tali sviluppi giurisprudenziali e legislativi, unitamente alla proposta di recente avanzata dal Direttore Generale della Organizzazione Mondiale della Sanità di riclassificare la cannabis ed i suoi derivati tra le Schedule I Drugs (le sostanze psicotrope meno dannose per la salute dell’uomo), sembrano dunque suggerire che l’avanzata del regime della legalizzazione sia appena iniziata.

Rebecca Girani – Riflessioni sui criteri della Corte costituzionale nell’ordinanza sull’aiuto al suicidio: un rischio di slippery slope?

La relazione analizza il tema dell’aiuto al suicidio nell’ordinamento italiano. Si ammette sin da subito il presupposto: si tratta di una tematica eticamente sensibile che fa emergere il naturale conflitto esistente nella società tra concezioni morali differenti. Si procede quindi ad esaminare i criteri elaborati dalla Corte costituzionale nell’ordinanza di rinvio n. 207/2018 resa nell’ambito della vicenda processuale a carico dell’imputato Marco Cappato. Il giudice delle leggi – rinviando l’udienza del giudizio al 24 settembre 2019 e rivolgendo uno stringente monito al Parlamento – sembra riconoscere in generale la legittimità dell’art. 580 c.p., pur tuttavia si sofferma sulla identificazione di specifiche ipotesi in cui l’assistenza di terzi nel porre fine alla propria vita costituisce per il malato l’unica possibilità di esercizio del diritto costituzionalmente tutelato di rifiutare i trattamenti sanitari ai sensi dell’art. 32 Cost. 
Ci si propone di vagliare le possibili criticità legate all’applicazione dei criteri elaborati dalla Corte costituzionale volgendo lo sguardo in prospettiva comparata verso gli ordinamenti che da tempo hanno optato per il modello a tendenza permissiva con particolare riferimento ai Paesi Bassi e al Belgio. In questi Stati da decenni è in vigore una disciplina normativa frutto di una vicenda storica, durata trent’anni, che ha coinvolto il versante giurisprudenziale, quello legislativo, la categoria dei medici e anche l’opinione pubblica. Nei Paesi Bassi e in Belgio risulta non punibile la condotta del medico che presta assistenza al suicidio o, addirittura, procura la morte del paziente se sono rispettate le condizioni specificatamente indicate dalla legge. Il rispetto della procedura è elemento costitutivo della liceità dell’azione operando come causa di esclusione dell’antigiuridicità, al contrario, la non osservanza della procedura fa sorgere la responsabilità di natura penale in capo al medico. Inoltre, nell’analisi comparata è fondamentale far emergere lo stretto rapporto tra il tema del fine vita e le cure palliative, cioè terapie volte a preservare la migliore qualità di vita possibile del malato terminale senza accelerarne o differirne la morte.  Infatti, si ritiene necessario, da un lato, discutere il possibile accesso all’aiuto al suicidio conciliando le contrapposte esigenze etiche e filosofiche presenti nella società, dall’altro, però occorre potenziare l’offerta assistenziale delle cure palliative in modo da evitare che l’assistenza al suicidio tramuti nell’unico strumento a disposizione del malato sofferente. Esemplare in tal senso è il Parlamento belga che, al fine di identificare un punto di equilibrio sulla questione del fine vita, è intervenuto in entrambe le direzioni nel medesimo periodo. Non si può poi sottacere un certo timore verso il suggerimento della Corte costituzionale di intervenire sulla recente legge n. 219/2017 in tema di consenso informato che costituisce un elevato punto d’incontro frutto di una valutazione annosa, ponderata e complessa tra componenti culturali diverse. Si ritiene, invece, più adeguato procedere attraverso una discussione ad hoc sulla questione del fine vita in modo da favorire un dibattito proficuo senza rischiare di demolire i risultati faticosamente raggiunti a fine 2017.

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