Settima edizione - Programma definitivo e abstract delle relazioni





Enforcement penale e diritti fondamentali

Coordinano i Proff. Gabriele Fornasari e Gian Luigi Gatta

• Carla Cataneo – La tutela dei diritti fondamentali in carcere in una situazione di emergenza sanitaria

Il tema oggetto della relazione riguarda la tutela dei diritti fondamentali in carcere – in particolare, il diritto alla salute, in situazione di emergenza sanitaria. Prendendo le mosse dai provvedimenti e dalle misure messe in atto per scongiurare il rischio di diffusione del virus Covid-19 negli istituti penitenziari, l’obiettivo che mi pongo è quello di indagare i rapporti tra diritti inderogabili della persona ed esigenze di tutela sociale, nell’ottica di avviare una riflessione su loro necessario bilanciamento in situazione di emergenza.

• Beatrice Fragasso – Provocazione poliziesca e responsabilità penale: tra esigenze di repressione e diritto all’autodeterminazione del cittadino

L’istituto dell’agente provocatore è sempre stato oggetto di un intenso dibattito dottrinale in Italia: può dirsi consumato un reato necessariamente plurisoggettivo in assenza del dolo di partecipazione di uno dei due concorrenti? La qualifica di agente delle forze dell’ordine del concorrente rende l’azione inidonea a mettere in pericolo il bene giuridico e, dunque, il reato impossibile? E, dal punto di vista politico-criminale, come può considerarsi democratico uno Stato che mette alla prova i suoi cittadini al fine di verificarne la resistenza alle tentazioni?

A partire dalla l. 162/1990 in materia di stupefacenti e fino all’odierna disciplina contenuta nell’art. 9 l. 146/2006, il legislatore, al fine di favorire l’emersione di reati altrimenti difficilmente accertabili, ha consentito forme di investigazione potenzialmente provocatorie nell’ambito delle operazioni sotto copertura, scriminando la condotta degli agenti delle forze dell’ordine coinvolti. Il rischio insito nelle operazioni sotto copertura, tuttavia, è che la legittima finalità di acquisizione di prove sfoci in una vera e propria istigazione a delinquere, idonea a persuadere a commettere un reato una persona che – in assenza di provocazione – non l’avrebbe commesso. È evidente che questo rappresenterebbe un intollerabile sacrificio della libertà e del diritto all’autodeterminazione del cittadino sull’altare di un diritto penale preventivo, più attento alle esigenze di sicurezza sociale che alla garanzia dei diritti del cittadino.

Obiettivo della ricerca è quello di verificare quali siano i criteri utilizzati da dottrina e giurisprudenza per distinguere operazioni sotto copertura legittime dalla provocazione al reato. Nel farlo, si adotterà un approccio volto a valorizzare i due aspetti complementari del fenomeno: non solo la posizione dell’agente provocatore, ma anche quella del provocato, secondo un’impostazione estranea alla tradizione italiana, ma centrale nella giurisprudenza della Corte EDU e nell’ordinamento statunitense. In particolare, si cercherà di valutare se la legislazione italiana offra sufficienti garanzie al soggetto provocato: un’analisi necessaria alla luce della giurisprudenza europea, dal momento che la Corte EDU ha in più occasioni stabilito che costituisce violazione dell’art. 6 CEDU la condanna del soggetto che non avrebbe commesso il reato in assenza di provocazione poliziesca.

• Matilde Botto – Se la tortura diventa il male minore: dal "ticking bomb scenario" al dibattito sulla legalizzazione

La relazione intende ripercorrere il dibattito giusfilosofico contemporaneo concernente le istanze, di matrice utilitarista, afferenti alla “legalizzazione della tortura”, attraverso un approccio critico volto ad evidenziarne i principali profili storici, filosofici e giuridici.
Ad essere messa in discussione, infatti, è la 
lectio magistralis illuminista, il filo rosso che ha unito le democrazie nella lotta alla tortura, che ha portato alla definizione del divieto e del crimine di tortura nell’ambito del diritto internazionale, sovranazionale ed umanitario e, a livello interno, alla repressione penale. Si tratta di una premessa necessaria, che va ad affiancarsi alla considerazione per cui i dati relativi alla diffusione del ricorso alla tortura nel mondo fanno suonare come una speranza che la storia ha disatteso la nota frase, scritta a fine ’700 da Pietro Verri, «Mi pare impossibile che l’usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere per lungo tempo ancora».

Nell’illustrare i termini del dibattito attuale si avrà modo di rilevare come negli schemi argomentativi a sostegno del “superamento del tabù della tortura” – e, dunque, del suo divieto universale, assoluto e inderogabile – vi siano elementi comuni (in primis quello che si vedrà essere il generale richiamo ad un ticking bomb scenario).

A partire dalla messa in evidenza dei profili “fallaci” delle suddette argomentazioni orientate a proporre una “(re)-introduzione legale” della tortura, si vuole ribadire che la perdurante presenza della tortura nella storia dell’umanità è “un monito imprescindibile”, da cui discende una necessaria – e trasversale – repressione penale di qualsiasi pratica ad essa riconducibile.

E se, sul piano morale, parafrasando la Arendt, non si può che introdurre la relazione con il seguente interrogativo: fino a che punto logiche prettamente utilitaristiche che si nutrono della nolontà degli uomini possono arrivare a banalizzare il male, spingendosi sino a rendere “accettabile” la tortura, ossia l’“inaccettabile” morale? (Cfr. H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, 2015, p. 112). Su quello giuridico – penale, in particolare – non si può che anticipare l’intervento a seguire da una parte ricordando a noi stessi i limiti strutturali della “legittima difesa” o dello “stato di necessità” e dall’altra rimarcando l’ineliminabile distanza che separa il diritto penale del nemico da quello di un ordinamento liberaldemocratico.

Prospettive attuali sul ruolo delle scienze nel diritto penale

Coordinano i Proff. Adelmo Manna e Lorenzo Picotti

• Pierluigi Guercia – L'imputabilità degli alcol-tossicodipendenti, tra resistenze giurisprudenziali, evidenze neuroscientifiche e conseguenti prospettive di riforma

L’enucleazione delle prospettive riformiste della disciplina codicistica, in punto di valutazione dell’imputabilità dei soggetti alcoldipendenti e tossicodipendenti, non può non originare dall’incontrovertibile rilevazione dei connotati, intrisi di patente anacronismo, che intessono il rigoroso impianto del codice Rocco, nel cui ambito il ricorso al sistema delle fictiones iuris disvela il proprio ossequio ad evidenti ragioni di politica criminale espressive del predominio delle istanze general-preventive, anche ben oltre il limite rappresentato dal rispetto del principio di colpevolezza.

L’assoluta obsolescenza scientifica, allo stato delle maturate evidenze neurobiologiche, della divaricazione tra intossicazione abituale e cronica, si inserisce in un complessivo quadro di ipersemplificazione legislativa, corroborata da prospettive riduzioniste ampiamente sedimentate in ambito giurisprudenziale, collidente con l’incontrovertibile complessità clinico-diagnostica di prefigurazione dell’abuso di, e della dipendenza da sostanze alcoliche o stupefacenti, caratterizzati da una polideterminazione sintomatologica, comportamentale, socio-ambientale e sotto-culturale.

Poste tali premesse, l’importanza della ricerca neuroscientifica deve cogliersi nella rappresentazione delle strutture e del funzionamento delle aree cerebrali coinvolte nei processi disfunzionali che conducono alla dipendenza ponendosi, allo stesso tempo, in luce le difficoltà di trasposizione delle medesime evidenze sul versante giuridico; il condivisibile rifiuto di una spiegazione “neuro-riduttiva” del fenomeno della dipendenza non osta, tuttavia, alla considerazione del sensibile apporto che potrebbe essere fornito dalle neuroscienze – a condizione di approdare ad omogenei criteri di misurazione nella comunità scientifica – nel processo di complessiva rivisitazione della disciplina in materia di alcol-tossicodipendenza.

Le potenzialità degli studi di neuroimaging potrebbero contribuire al definitivo superamento, ai fini dell’esenzione dall’imputabilità, della tradizionale controversa equiparazione legislativa tra croniche intossicazioni da alcool e da stupefacenti, mediante una compiuta rivisitazione della nozione penalistica di cronica intossicazione incardinata sull’individuazione e sulla selezione di standard differenziati per le sostanze stupefacenti e per l’alcool.

I possibili sviluppi riformisti in materia, imprescindibilmente orientati dalla prioritaria attenzione alle esigenze sottese al rispetto del principio di colpevolezza, sollecitano, ancor di più, un ampliamento del raggio riflessivo in direzione di una più consistente conformità alle istanze di personalizzazione della

responsabilità penale, ponendosi in linea di sostanziale continuità nei riguardi di quelle impostazioni, di recente sviluppo, le quali puntano in maniera sempre più convinta all’emersione di una «concretizzazione psicologica della colpevolezza», pur senza intaccare in alcun modo i cardini propri della concezione normativa.

• Olimpia Barresi – Intelligenza artificiale e giustizia predittiva

A fronte di una realtà che vede l’irrompere imperioso delle nuove tecnologie, il giurista di oggi è tenuto a confrontarsi con dei nuovi protagonisti che fanno ingresso nelle aule di giustizia. In particolare, da tempo, si profila l’idea di creare degli strumenti in grado di simulare il pensiero e l’apprendimento umano e in tale contesto si sviluppa l’Intelligenza Artificiale che, negli anni più recenti, si è avvicinata al sistema della giustizia civile, amministrativa e, da ultimo, anche penale attraverso l’utilizzo degli algoritmi predittivi. Senza dubbio, il fascino che esercitano tali strumenti è dato dal diffondersi dell’approccio anchoring e della spontanea fiducia che l’essere umano ripone nella tecnologia, ma soprattutto, dall’idea di poter “migliorare” la decisione umana, rendendola meno fallibile e “più esatta”. E proprio l’evolversi dell’Intelligenza Artificiale ha condotto alla creazione di alcuni strumenti, denominati risk assessment tools che si avvicinano a diverse attività in ambito penalistico, coinvolgendo il campo investigativo, probatorio e decisorio. L’intervento si propone di prendere in considerazione, partendo da una prospettiva generale, proprio quest’ultimo aspetto e – in particolare – gli usi applicativi nelle valutazioni inerenti la commisurazione della pena e la fase più delicata rimessa all’organo giudicante inerente le valutazioni prognostiche sulla pericolosità dell’individuo. Si sta facendo strada una nuova concezione denominata evidence-based di valutazione del rischio individuale a seguito della commissione di un reato: una concezione basata su riscontri oggettivi, destinata a soppiantare o, quanto meno integrare, le valutazioni più intuitive dei giudici tuttora ampiamente diffuse. Si cercherà, pertanto, di prendere in considerazione i possibili impieghi nel sistema penale italiano, tentando, fin da subito, di ravvisare i profili di frizione con il nostro sistema di garanzie. Sarà utile, a tal fine, presentare anche un breve inquadramento delle attuali applicazioni oltreoceano, che possono fornire un primo terreno di indagine e banco di prova al fine di valutare gli effetti applicativi. Senza dubbio, dai primi approcci al tema, emergono questioni collegate alla natura ed essenza della decisione, attività intrinsecamente umana e basata su un’argomentazione giuridica che convive costantemente con il dubbio. Diversi sono i punti più spinosi che fanno emergere interrogativi e questioni che si scontrano con il sistema delle garanzie penalistiche e processuali, e che coinvolgono anche questioni di tipo etico-filosofico che conducono gli studiosi ad interrogarsi sulla natura e, forse, sul possibile cambiamento del concetto di “decisione umana”.

Concorso di illeciti e ne bis in idem
Coordinano i Proff. Alessandro Melchionda e Antonio Vallini

• Chiara Crescioli – Il concorso di reati nei reati informatici

Il principio di specialità di cui all’art. 15 del codice penale è il criterio principale, nonché l’unico esplicitamente indicato nel codice penale, per determinare se lo stesso fatto di reato può integrare più fattispecie o se, invece, il concorso è solo apparente, per cui una soltanto è in realtà la norma violata e unica la sanzione applicabile. Tuttavia, come si esaminerà nel prosieguo, tale principio non sempre si rivela adeguato a risolvere tutte le ipotesi di concorso apparente di norme, specialmente con riferimento ai reati informatici e cibernetici, che presentano numerose peculiarità, tra cui uno scarso coordinamento tra le diverse fattispecie previste sia nel codice penale sia nelle leggi speciali, causato dal susseguirsi di interventi legislativi disorganici e frammentari. Il criterio della specialità mostra tutti i suoi limiti di fronte agli attacchi informatici finalizzati alla commissione di reati contro il patrimonio, che si articolano necessariamente in più fasi, per cui la commissione di taluni reati diviene strettamente funzionale alla commissione di uno o più gravi reati. È sufficiente rilevare come ad esempio il fenomeno criminoso del phishing si articoli

necessariamente in una pluralità di fasi, consistenti nella creazione di finte mail o di un malware allo scopo di carpire i dati personali altrui, nell'ottenimento delle credenziali o dati personali della vittima e nell'utilizzo dei dati così illecitamente ottenuti al fine di accedere al sistema informatico, per poi sottrarre del denaro effettuando operazioni non autorizzate dal suo sistema di home banking. Tale condotta è astrattamente riconducibile a ben tre o quattro fattispecie: detenzione e diffusione di codici di accesso a sistemi informatici o telematici di cui all’art. 615-quater c.p., accesso abusivo a sistema informatico o telematico ex art. 615-ter c.p. e frode informatica ex art. 640-ter c.p. oppure truffa comune ex art. 640 c.p. Nel caso in cui le password siano costituite da dati biometrici, a tale elenco si può aggiungere anche il reato di illecito trattamento dei dati personali di cui all’art. 167 d.lgs. 196/2003. Poiché tutte queste fattispecie si consumano in momenti tra loro fisiologicamente diversi, in adesione alla tesi monista sostenuta anche dalle Sezioni Unite, che ritiene applicabile unicamente il criterio della specialità in astratto, si dovrebbe necessariamente concludere per il concorso di reati. Così facendo però si trascurerebbe che in realtà le fattispecie menzionate sono tra loro in rapporto di stretta connessione (basti rilevare che il “procurarsi” i codici d‘accesso costituisce il necessario antefatto dell’accesso abusivo e potrebbe di per sé integrare anche un comune reato di truffa, necessario a sua volta alla realizzazione della frode informatica) e si darebbe origine ad un’ingiustificata moltiplicazione di sanzioni.

Un problema analogo esiste anche con riferimento ai rapporti tra le diverse fattispecie di danneggiamento informatico ed il reato di cui all’art. 615-quinquies c.p., che sanziona la diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico.

Una parte della giurisprudenza, sensibile alle esigenze di rispetto del principio fondamentale di proporzione tra fatto illecito e pena, ha ritenuto di recente, proprio in materia di reati informatici, di dover applicare il diverso criterio dell’antefatto o del postfatto non punibile. Nonostante tale ultima apertura all’utilizzo di un criterio diverso rispetto a quello della specialità, però, i rapporti tra i diversi reati rimangono tuttora controversi. A tal proposito, è sufficiente rilevare la presenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti su due ipotesi di possibile concorso tra reati informatici, il primo riferito ai rapporti tra accesso abusivo a un sistema informatico o telematico e detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso e il secondo tra frode informatica e indebito utilizzo di carte di credito.

L’obiettivo del presente intervento, dunque, la cui analisi si concentrerà solo sui rapporti tra i reati informatici e cibernetici che vengono in rilievo in caso di condotte lesive dei beni giuridici della riservatezza informatica, dell’integrità di dati e sistemi e del patrimonio, è dimostrare come, soprattutto in tale ambito, sia possibile integrare il criterio della specialità con quello della consunzione/assorbimento, che può essere più idoneo a soddisfare le esigenze di proporzionalità della pena.

• Michele Spina – Aporie nella distinzione tra specialità per aggiunta e specialità per specificazione

La lettura estensiva della specialità, fondandosi sul binomio aggiunta-specificazione, pretende di dare rilievo decisivo, tanto in ambito sincronico che in quello diacronico, alla mera presenza “visiva” dell’elemento specializzante nella fattispecie generale. Ormai abbandonata nel risolvere problemi intertemporali, la teoria continua a trovare proseliti in campo concorsuale, nel tentativo di tenere insieme legalità e ne bis in idem. L’intervento cercherà di provare che la fallace distinzione dissimula una gerarchia tra elementi costitutivi, e che la stessa teoria strutturale che vi si fonda può essere ridisegnata valorizzando le sue occulte implicazioni.

• Laura Notaro – Ne bis in idem e doppi binari sanzionatori: prospettive attuali

La pena criminale si trova oggi ad essere affiancata dalle sanzioni amministrative, all’interno di un più generale concetto di “diritto punitivo”, che emerge non solo alla luce della giurisprudenza delle Corti europee in tema di “materia penale”, ma già in ragione del percorso dottrinale e legislativo che, a livello interno, riconosciuta un’omogeneità di scopi tra sanzioni penali e amministrative, ha portato all’introduzione di una disciplina generale dell’illecito amministrativo di chiara ispirazione penalistica.

Negli ultimi anni, il rapporto fra illeciti penali in senso stretto e illeciti amministrativi è tornato al centro del dibattito sotto il profilo delle possibili frizioni con il ne bis in idem, applicabile, secondo la Corte EDU, alla

materia penale in senso ampio. Anche dopo il revirement del 2016 (A e B c. Norvegia), che ha ridimensionato la precedente estensione della garanzia nella sua declinazione processuale (Grande Stevens e a. c. Italia), il problema non pare esaurirsi. Rimangono non del tutto chiari, infatti, i criteri stabiliti dalla Corte EDU per escludere il bis, il loro rapporto reciproco e la loro corrispondenza con quanto affermato dalla Corte di Giustizia nelle sentenze del 2018. Potrebbe quindi apparire per certi versi semplificatoria la lettura, fatta propria anche dalla giurisprudenza italiana, che ravvisa una torsione del principio in direzione sostanziale, ri(con)ducendolo al solo canone di proporzionalità delle sanzioni.

Sta di fatto che sulla proporzionalità si è concentrata la giurisprudenza italiana in materia di abusi di mercato, giungendo ad affermare la necessità di una “disapplicazione del minimo edittale” come rimedio in presenza di cumuli sanzionatori sproporzionati. Tale approdo, giunto proprio con riferimento agli abusi di mercato, segnala la mancanza, in quel settore, di uno strumento sufficientemente idoneo ad assicurare un temperamento del cumulo materiale di sanzioni a cui darebbe luogo la vigente disciplina.

Nel corso dell’intervento, dopo una breve introduzione sulla giurisprudenza sovranazionale e interna in materia di ne bis in idem e doppi binari, volta a evidenziarne le residue criticità, si esamineranno i principali “doppi binari” previsti dall’ordinamento italiano, con l’obiettivo di focalizzare le specificità del problema in ciascun settore e di condurre alcune riflessioni sui rimedi attualmente previsti per mitigare il cumulo sanzionatorio. Infine, si prenderanno in considerazione le residue criticità, anche sul piano procedimentale.

La crisi del modello legicentrico

Coordinano i Proff. Cristiano Cupelli e Michele Papa

• Ilaria Giugni - Legalità penale e sentenze monito

Attraverso i moniti la Corte costituzionale sollecita il legislatore ad intervenire, nell'esercizio delle prerogative riservategli dalla Carta, per rendere l'ordinamento maggiormente conforme ai principi costituzionali. L'utilizzo di questo strumento decisorio – in materia penale – pone taluni dubbi di compatibilità con il principio di legalità e con il sostrato di tale principio, quello di separazione dei poteri. Invero, i punti di frizione fra i moniti della Corte e il nullum crimen sono divenuti più evidenti con l'evoluzione di tale tecnica decisoria, che ha mutato nel tempo i propri connotati. Creata in via pretoria al fine di evitare i pericoli di una secca declaratoria d'incostituzionalità, la sentenza monito presentava in origine un mero significato facoltizzante, non imponendo al legislatore tempi, modi e contenuti del successivo adempimento all'invito della Corte. Più tardi, a fronte della scarsa collaborazione del Parlamento, i moniti sono divenuti via via più pregnanti e persuasivi, dapprima trovando seguito in una seconda pronuncia di accoglimento, sollecitata dai giudici a quibus, nel meccanismo della cd. doppia pronuncia; più recentemente, prendendo la forma della cd. "incostituzionalità prospettata".

Con la pronuncia cd. "ad incostituzionalità prospettata o differita", coniata a partire dal cd. caso Cappato, la Corte rivolge al legislatore una sollecitazione più stringente perché ad tempus: contestualmente alla formulazione del monito, fissa un termine entro il quale risulterà necessaria l'attivazione delle Camere pena l'intervento sostitutivo della Corte per garantire la legalità costituzionale. Nonostante tale tecnica miri a creare nuovi binari collaborativi con il Parlamento, non invadendone gli spazi di discrezionalità, nella pratica il suo utilizzo rischia di alterare i delicati equilibri istituzionali previsti in Costituzione. Non solo la Corte costituzionale ingerisce nei lavori parlamentari, fissandone l'agenda politica, ma è ben possibile che, a fronte della latitanza del legislatore, finisca per svolgere un ruolo di supplenza. Una tale eventualità risulta difficilmente compatibile con il principio di legalità e con la sua ratio democratica, rimettendo scelte di politica criminale riservate al Parlamento ad un organo che presenta un insanabile deficit di rappresentatività, con possibili ricadute anche sul piano della precisione della fattispecie.

Occorre tenere conto, inoltre, che il nuovo tipo di monito ideato dalla Corte non ha sinora dato buona prova sul piano dell'efficacia. Usato in materia di agevolazione al suicidio, comminatoria della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa e di ergastolo ostativo, non ha prodotto alcun intervento del legislatore nei primi due casi, di fatto non centrando l'obiettivo di stimolare la collaborazione

istituzionale e producendo, nel giudizio costituzionale ancora pendente, costi tutt'altro che irrilevanti (i.e. impedire un possibile vaglio nel merito delle richieste di ammissione alla liberazione condizionale degli ergastolani ostativi pur a fronte di una accertata e perdurante violazione dell'art. 27, co. 3, Cost.).
Per il futuro, dunque, è forse auspicabile un ricorso più parco alla nuova tecnica decisoria della cd. 
incostituzionalità differita oppure la creazione di meccanismi che garantiscano una adesione certa del Parlamento al dialogo costruttivo con la Corte.

• Gianluca Taiani – Il sindacato sulla misura della pena nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale

Il principio di legalità penale versa in una crisi denunciata da più voci, ormai da tempo riunite in un coro unanime. Al turbamento del principio, che postula la consonanza tra diritto penale e legge, contribuiscono tanto fattori endogeni, quali la decodificazione e l’utilizzo compulsivo della legislazione penale, quanto i fattori esogeni scaturenti dal necessario e crescente dialogo con le fonti sovranazionali e i loro giudici.

In questo elenco si iscrive anche il sindacato di legittimità costituzionale sulle scelte legislative in materia penale. La Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 236 del 2016, ha progressivamente abbandonato il più cauto atteggiamento tenuto nei primi decenni della sua attività, manifestando la propensione ad un uso più penetrante delle decisioni manipolative con riferimento alle scelte sanzionatorie operate dal Legislatore.

Inaugurata questa nuova stagione, la Consulta ha individuato il referente privilegiato del proprio sindacato nel principio di proporzionalità della pena, ancorandolo ai principi di eguaglianza e a quello della finalità rieducativa della sanzione penale. La forza di questo nuovo sindacato sulle cornici edittali manifestamente sproporzionate risiede nell’inedito congedo dallo schema triadico (o meglio, nella sua ristrutturazione) e nell’approdo verso valutazioni di proporzionalità intrinseca.

Nel salto dalle “rime obbligate” alle “rime possibili” la Corte ridimensiona la preoccupazione di invadere gli spazi di discrezionalità del Legislatore - testimoniata dai plurimi moniti inascoltati rivolti al Parlamento - e intraprende un ruolo attivo nella tutela dei diritti individuali e nella garanzia della coerenza delle scelte sanzionatorie, spesso ostaggio di scelte simboliche di criminalizzazione.

• Clementina Colucci – La funzione comando del precetto nell'epoca della crisi della legge

Negli ultimi anni è in atto una profonda crisi dei contenuti principali della norma penale, della sua struttura e del suo funzionamento: da una parte v’è la polverizzazione del precetto, sempre più instabile e incapace di essere racchiuso nelle strette forme che il rispetto del principio di tipicità richiederebbe; dall’altra, emerge la modificazione del comando quale tradizionale forma di orientamento normativo del comportamento, inscindibilmente legato alla presenza della sanzione.

Difatti, il meccanismo del command and control – basato sulla prescrizione vincolante di tenere (o nel caso del diritto penale astenersi da) una certa condotta, seguita dal controllo sull’adesione o meno a tale imperativo alla cui violazione seguirà la sanzione – sempre più spesso viene integrato con sistemi di compliance che mirano ad incentivare la spontanea adesione al precetto per mezzo di meccanismi diversi dalla prospettazione di una sanzione.

Anche nell’ambito del diritto penale è sempre più frequente l’impiego di meccanismi di tipo ingiunzionale che affiancano e precedono l’applicazione della norma penale, o talvolta ne seguono la violazione, “celati” sotto istituti di premialità, lato sensu intesa. Questi ultimi non sono unicamente volti, dunque, alla riparazione del danno o dell’offesa, ma contribuiscono a creare un meccanismo di compliance indiretta nei confronti della norma primaria.

Un importante catalizzatore del processo in atto si rinviene nella crescente tendenza alla delega normativa nei confronti dei privati, che ormai investe anche la sfera strettamente penalistica, e che comporta l’utilizzo di schemi normativi che vanno al di là di quelli tradizionalmente utilizzati. Il fenomeno si inserisce nel più ampio processo di trasformazione delle forme della normatività, sempre più tendente a valorizzare l’effetto piuttosto che il momento creativo della norma giuridica, e che lascia spazio a forme di normazione morbida quale valida alternativa alla regola giuridica statica e rigida – sempre più inidonea a regolare la realtà – fino

a giungere alla valorizzazione di processi tesi alla conformity: a forme di normazione, cioè, prive sia del precetto che del comando.

Questioni di diritto penale economico tra responsabilità dell’individuo e delle persone giuridiche

Coordinano i Proff. Enrico Amati, Luigi Foffani e Marco Gambardella

• Bianca Ballini – Deflazione e responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001

Il diritto penale pos-moderno si è connotato per un crescendo esponenziale di incriminazioni, alle quali, nel tempo, hanno fatto da contraltare plurimi interventi di depenalizzazione c.d. in astratto, con risultati tuttavia insoddisfacenti in termini deflattivi.
Perciò, in tempi più recenti, il baricentro delle politiche deflattive si è spostato sul fronte della punibilità. Così, agli artt. 131-
bis, 162-ter, 168-bis c.p. sono stati previsti meccanismi di depenalizzazione c.d. in concreto, i quali coniugano l’obiettivo deflattivo ad istanze più marcatamente sostanziali. Il loro ambito applicativo è circoscritto alla responsabilità penale delle persone fisiche, mentre alcunché è espressamente previsto in ordine alla corrispondente responsabilità dell’ente.

La relazione si propone di riflettere in ordine alla eventuale sussistenza di indici di segno opposto. In particolare, si muove dalle funzioni rivestite dagli anzidetti istituti per vagliare la ragionevolezza della loro apparente inapplicabilità all’ente, ossia della disparità di trattamento dei due centri di imputazione.
In quest’ottica, sotto un primo profilo, si osserva che l’asimmetria di trattamento finisce per frustrare l’obiettivo deflattivo attuato attraverso l’applicazione all’imputato-persona fisica degli anzidetti istituti, poiché il processo deve comunque proseguire nei confronti dell’ente.

Ciò, tuttavia, non basterebbe a fondare l’esclusione della punibilità anche della societas, poiché le esigenze di deflazione del carico giudiziale restano comunque soccombenti dinanzi alla preminente necessità di punire l’ente per l’illecito realizzato.
Ci si domanda allora se, al ricorrere dei presupposti operativi degli artt. artt. 131-
bis, 162-ter e 168-bis c.p., sia davvero necessario continuare a punire l’ente, tenuto conto della funzione sostanziale rivestita dagli istituti ivi previsti.

• Dalila Federici – L'informazione privilegiata e il reato di insider trading alla luce della recente riforma

La relazione ha come oggetto l’analisi del concetto di “informazione privilegiata” quale elemento costitutivo dell’illecito di insider trading di cui all’ art. 184 t.u.f.
Nello specifico, dopo aver brevemente ripercorso l’evoluzione della normativa dei c.d. 
market abuse, con particolare attenzione alla modifica della definizione di informazione privilegiata che integra il precetto penale - ora contenuta all’art. 180, lettera b) ter t.u.f. che rinvia all’art. 7 Regolamento n. 596 del 2014 (MAR) -, ci si interrogherà in merito alla compatibilità di un rimando diretto al MAR con il principio della riserva di legge.

Nella seconda parte dell’intervento, si analizzeranno le differenze testuali delle definizioni che si sono avvicendate nel tempo allo scopo di valutare se la nozione di informazione privilegiata sia rimasta immutata oppure abbia subito delle modifiche. Ciò si rende opportuno poiché dalla definizione dipende l’estensione del penalmente rilevante dell’illecito di insider trading. Invero, è necessario verificare se le tappe intermedie dei processi prolungati, esplicitamente menzionate solo nella formulazione della definizione del 2014, rientrassero già nel concetto di informazione privilegiata, ex art. 181 t.u.f., anche prima della riforma. Al fine di rispondere a tale interrogativo, verrà analizzata la giurisprudenza della Corte di Giustizia nel caso Markus Gelti v. Daimler e della Corte di cassazione (Respigo e Cremonini).

In ultimo, prendendo le mosse dalla recente pronuncia di legittimità “Cremonini”, ci si interrogherà circa il corretto significato da attribuire al termine “informazione” al fine di affermare o negare la rilevanza del c.d. insider di sé stesso.

• Marcello Tebaldi – La riforma degli illeciti agroalimentari: prospettive evolutive in materia di responsabilità da reato degli enti collettivi

Il disegno di legge in materia di illeciti agroalimentari, attualmente all’esame del Parlamento, si pone l’obiettivo di innovare l’intera disciplina della sicurezza alimentare, offrendo strumenti che permettano di rispondere al meglio alle nuove esigenze di tutela. Da un lato il d.d.l. n. 2427 introduce una serie di nuovi reati agroalimentari (pensiamo fra gli altri al delitto di agro-pirateria), modificando il codice penale e la legge n. 283 del 1962; dall’altro per la prima volta gli illeciti agroalimentari fanno il loro ingresso all’interno del catalogo dei reati presupposto del d.lgs. 231/2001.

Peculiare è, però, la tecnica legislativa utilizzata: il disegno di legge, infatti, non si limita a introdurre nuovi reati presupposto, come avvenuto in passato con i reati tributari o con la riforma dei reati ambientali, ma detta uno specifico modello di organizzazione riservato alle società operanti nel settore agroalimentare (nuovo art. 6-bis d.lgs. 231/2001).

La previsione di un nuovo modello organizzativo apre non pochi interrogativi. In particolare bisognerà analizzare il rapporto che si andrà ad instaurare tra il modello riservato alle imprese agroalimentari e il modello “generalista”. Il nuovo modello dovrà, inoltre, coordinarsi anche con le altre disposizioni del d.lgs. 231/2001 e con il dettato dell’art. 30 del d.lgs. 81/2008.

Infine, vi è da chiedersi se questa tecnica legislativa non possa essere in futuro applicata ad altri interventi di ampliamento del catalogo dei reati presupposto.

Alternative alla punizione: riparazione, restituzione, premialità

Coordinano i Proff. Donato Castronuovo e Marco Pelissero

• Riccardo Orlandi – La desistenza volontaria e il recesso attivo come basi paradigmatiche della riparazione del reato

Quando si parla di restorative justice si parla spesso di un insieme anche piuttosto eterogeneo di interventi che tendono, con un costo sociale minore perché riduttivo della potestà punitiva statuale, a proporre e attuare attività di risarcimento, reinserimento e mediazione – quindi di superamento alternativo – del conflitto criminale tra autore e vittima. Il modello del delitto riparato ha trovato, almeno inizialmente, attenzione da parte del legislatore interno in ambiti diversi dal diritto penale c.d. carcerario, soprattutto in quello del diritto penale complementare. Nel corso degli anni si sono susseguiti, però, numerosi interventi tutti indirizzati al modello della riparazione dell’offesa, sia di carattere idealistico sia utilitaristico, come nel caso della confisca per equivalente. La riparazione è essa stessa “pena”, ma non una pena in senso tradizionale, subita passivamente dal reo. Pensare dunque al delitto riparato come ad un vero e proprio istituto di parte generale, come l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, da affiancare dal punto di vista sanzionatorio al delitto tentato. Sono prospettabili due diverse dimensioni della riparazione del reato: una, in sostanza, più tradizionale e meno “coraggiosa” che segue il paradigma del recesso attivo che è sostanzialmente quella delineata dalla circostanza attenuante comune di cui all’art. 62, n. 6 c.p. con uno sconto di pena; la seconda che guarda alla riparazione del reato come modello realmente alternativo alla pena tradizionale, che può anche far venir meno il bisogno di pena, perché l’agente dal delitto è tornato veramente indietro, come nel caso della desistenza volontaria, ponendo in essere comportamenti post delictum per porre rimedio al fatto criminoso compiuto, non soltanto nei confronti della vittima ma più in generale nei confronti della collettività; quasi una modificazione del fatto di reato. Si tratta di fornire una strada alternativa, di disegnare un sistema sanzionatorio differenziato, con il quale il reo può confrontarsi fin da subito. Se il reato viene riparato la pena dovrà essere inferiore o almeno uguale a quella prevista per il tentativo. Una riparazione che, affrontata in maniera laica e all’interno dell’iter processuale, può portare alla non-punibilità, ad una esenzione dall’applicazione della pena, se il comportamento sopravvenuto del reo è in grado di annullare completamente, di riportare a “saldo zero”, il danno materiale e sociale del reato, senza seguire peraltro logiche politico-criminali come la

teoria del c.d. ponte d’oro o del premio, ma criteri interni al sistema, di bilanciamento, più oggettivi. È questo, forse, anche un modo per provare ad inserire nel sistema punitivo un criterio più matematico di commisurazione della pena (perché in questo caso si guarderebbe ai “minimi”), che di matematico in generale ha ben poco, essendo già espressione piena di prevenzione generale nella definizione delle cornici edittali.

• Anna Costantini – La confisca di prevenzione in funzione di recupero dei profitti di illecita provenienza: rapporti con i modelli europei di confisca estesa e non-conviction-based

All’interno del quadro frastagliato e ambivalente delle confische, quella “di prevenzione” costituisce forse la figura che, più di ogni altra, sfugge ai persistenti tentativi di lettura in chiave unitaria. La collocazione tra le “misure di prevenzione” ha consentito a tale strumento di espandersi al di fuori dei tradizionali limiti di garanzia propri del diritto e del processo penale, legittimando un’incidenza estremamente penetrante sul patrimonio di soggetti soltanto indiziati (o sospettati?) di aver commesso reati. Non stupisce che la confisca di prevenzione venga considerata una delle principali espressioni del diritto penale della modernità e, più in generale, del tentativo di piegare le categorie tradizionali del diritto penale a esigenze preventive di “lotta”, se non di “guerra”, nei confronti di fenomeni criminali che generano una diffusa percezione di allarme sociale, come quello mafioso. La centralità della confisca nelle moderne strategie di contrasto al crimine organizzato costituisce espressione, inoltre, di una tendenza più ampia, trasversale a gran parte degli ordinamenti giuridici, che muove dalla consapevolezza della maggiore efficacia delle misure volte a neutralizzare il potere economico dei gruppi criminali incidendo sui capitali illecitamente accumulati. D’altra parte, la necessità di un approccio sostanzialistico al tema della materia penale, imposto anche dalla Corte europea dei diritti, rende ineludibile la questione della natura giuridica di tale ipotesi di confisca, che buona parte della dottrina considera come una “pena del sospetto” volta a sanzionare un “possesso ingiustificato di valori”, in pieno contrasto con le garanzie sancite dalla Costituzione e dalla CEDU. Sicuramente, anche alla luce dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’istituto, che ha portato al suo definitivo scollamento dal requisito della pericolosità (attuale) del destinatario dell’ablazione, risulta sempre più insostenibile una sua ricostruzione in chiave preventiva, nonostante i persistenti tentativi giurisprudenziali in tal senso. Per altro verso, l’idea dell’irrinunciabilità sul piano politico-criminale a tale strumento ha condotto, più recentemente, a percorrere l’ipotesi ricostruttiva che le assegna una natura giuridica ripristinatoria, collocandola quindi su un “terzo binario” del diritto sanzionatorio, distinto sia dalle misure punitive, sia da quelle preventive, e pertanto sottoposto a uno statuto garantistico più “blando” rispetto a quello proprio della materia penale.

Nel tentativo di individuare la funzione effettivamente svolta dalla confisca di prevenzione, si rivela particolarmente utile il raffronto comparatistico con altre ipotesi di “confische moderne”, il cui sviluppo, negli ultimi decenni, ha costituito un tratto costante di gran parte degli ordinamenti giuridici europei. Dall’indagine comparatistica, in particolare, emergono tre differenti modelli di confisca dei “patrimoni criminali” che presentano affinità con la confisca di prevenzione: quella volta a colpire i beni di (presunta) origine illecita di soggetti condannati per determinati reati (c.d. extended confiscation); quella applicata all’interno di un autonomo procedimento che si indirizza direttamente nei confronti del patrimonio di provenienza delittuosa (c.d. actio in rem); quella diretta nei confronti dei beni nella disponibilità di organizzazioni criminali. Nessuno di questi modelli è perfettamente sovrapponibile alla confisca di prevenzione, che si presenta così come una costruzione “ibrida”, al contempo elastica e teleologicamente contraddittoria. L’attuale configurazione dell’istituto, infatti, presenta una convergenza di funzioni distinte (ripristinatorie, ma anche punitive e preventive) che rendono difficile la costruzione di uno statuto garantistico unitario. In conclusione, quindi, si cercherà di offrire alcune proposte per una ridefinizione su base garantistica della confisca di prevenzione, che sia maggiormente coerente con la funzione che si intenda assegnare all’istituto e che consenta di contemperare le esigenze di efficienza con la tutela delle garanzie individuali.

• Luca Baron – Rilievi sparsi sui percorsi della premialità nel diritto penale dell'economia

Esaminata in una prospettiva grandangolare, la strategia politico-criminale degli ultimi anni sembra caratterizzata dalla compresenza di due linee evolutive di segno opposto. Per quanto infatti l’attuale momento storico consegni l’immagine di un diritto penale proteso verso la massimizzazione della risposta punitiva – soprattutto in relazione a talune fenomenologie comportamentali ritenute fonti di elevato allarme sociale – declinata nei termini ora di un ampliamento dell’area del penalmente rilevante, ora di un inasprimento del trattamento sanzionatorio esistente (tant’è che il ricorso alla pena sembra essere divenuto una autentica “passione contemporanea”), deve tuttavia segnalarsi la parallela implementazione di un numero sempre più consistente di strumenti normativi che, pur rispondendo a logiche politico- criminali tra loro differenti e difficilmente riducibili ad un’unica matrice progettuale, risultano tuttavia accomunate dalla medesima tendenza premiale di fondo.

Il riferimento riguarda quella variegata gamma di istituti i quali, allo scopo di prevenire l’offesa dei beni giuridici in gioco oppure di consentire la riparazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato commesso, mediante la prospettazione di benefici che assumono la fisionomia dell’attenuazione sanzionatoria o dell’esclusione stessa della pena, incentivano la persona fisica o giuridica ad attivarsi in chiave preventiva oppure postfattuale. Ed è nell’ambito del c.d. diritto penale dell’economia, popolato da fattispecie criminose ‘naturalmente adattabili’ alle esigenze della premialità (in quanto strutturate secondo le cadenze del reato di pericolo e poste a tutela di beni di natura patrimoniale e superindividuale), che i meccanismi preventivi e riparatori hanno trovato il sostrato normativo ideale per emergere e radicarsi. Muovendo dunque da una ricognizione delle principali figure presenti nell’ambito specifico dei reati economici, si tenterà dapprima di cogliere i profili caratterizzanti degli istituti premiali richiamati, per spostare successivamente l’analisi al di fuori del diritto penale economico e ricollocare l’indagine all’interno del più ampio e tradizionale ‘discorso sulla pena’: ciò con l’obiettivo di individuare quale incidenza tali strumenti, soprattutto quelli che intervengono post-factum, siano in grado esprimere in sede di individualizzazione del trattamento punitivo

Itinerari di parte speciale

Coordinano i Proff. Stefano Canestrari, Margareth Helfer e Vico Valentini

• Giacomo Rapella – Strategie di contrasto a pratiche estorsive ed usurarie

Tradizionalmente, i delitti di estorsione e usura sono stati considerati reati di minor gravità, relegati a contesti marginali o territorialmente circoscritti. Tuttavia, è emerso negli studi empirici che analizzano questi fenomeni come entrambi i reati siano di frequente posti in essere da organizzazioni criminali di tipo mafioso allo scopo non solo di controllare il territorio, ma anche di penetrare e condizionare il sistema economico. Tali evidenze hanno trovato ulteriori conferme nei mesi scorsi, quando alcune indagini condotte dall’autorità giudiziaria hanno messo in luce un particolare attivismo delle consorterie mafiose, pronte ad approfittare delle situazioni di difficoltà economica causate dalla pandemia da Covid-19. I due fenomeni, sebbene da tenere distinti sotto numerosi profili, sono accomunati da uno specifico elemento: lo scarso tasso di emersione, circostanza che ne rende assai difficile la repressione, rappresentando la denuncia della vittima il principale strumento di scoperta delle condotte delittuose. Tra le ragioni della scarsa propensione delle vittime alla denuncia, accanto alla natura collusiva delle due fattispecie, assume particolare rilevanza la diffidenza nei confronti delle Istituzioni. La vittima, indipendentemente dalle peculiarità della vicenda in cui è stata coinvolta, difficilmente deciderà di denunciare qualora non le si presenti una prospettiva in grado di bilanciare i costi e i benefici di tale scelta in termini sia processuali che extraprocessuali. Da un lato, infatti, avrà il fondato timore che gli atti ritorsivi più volte minacciati dall’autore del reato, sia esso un estortore o un usuraio, si concretizzino nelle more del processo o qualora l’autore stesso non venga condannato a una pena severa; dall’altro, dovrà affrontare la sfida di garantire la sopravvivenza economica della propria azienda e un’accettabile qualità di vita al proprio nucleo familiare.

Per rispondere a entrambe le domande di tutela, lo Stato ha sviluppato una complessa strategia di contrasto al fenomeno, incentrata, accanto all’azione repressiva nei confronti di coloro che pongono in essere attività illegali, su misure di supporto alle vittime. In particolar modo, la legislazione in materia, basata su un principio solidaristico, offre sostegno e solidarietà ai cittadini che si ribellano a racket e usura, attraverso lo strumento del Fondo di solidarietà per le vittime di estorsione e usura. A oltre venti anni dalla sua introduzione, è possibile interrogarsi sull’efficacia di tale strumento, non solo nel garantire un futuro agli operatori economici che hanno scelto la strada della legalità, interrompendo i legami con le organizzazioni criminali, ma anche nell’incentivare le denunce da parte di altri imprenditori che si ritrovano nelle medesime soluzioni. Le risposte a queste domande sono necessariamente articolate: mentre il sostegno offerto alle vittime di estorsione sembra dare buoni frutti, assai più complessa è la situazione in cui vengono a trovarsi le vittime di usura, provate dalla vicenda delittuosa non solo da un punto di vista economico ma anche personale e psicologico. Nelle conclusioni, verranno dunque prospettati alcuni possibili interventi di riforma della legislazione attualmente vigente, che si auspica possano determinare una più celere ed efficace risposta da parte delle Istituzioni e una maggior conoscenza e visibilità del Fondo.

  • Domenico Rosani – Sexting minorile e rilevanza penalistica comparata del diritto internazionale

    La creazione e lo scambio volontario di immagini pedopornografiche da parte dei minori continua, in Italia, a non conoscere pace giudiziaria. Di sexting tratteranno infatti prossimamente le sezioni unite della Cassazione, a cui è stata rimessa la questione se il consenso del minore alla creazione di fotografie o video intimi, ad esclusivo uso delle persone coinvolte e nel contesto di una relazione affettiva, escluda oppure no il reato di produzione di materiale pedopornografico.

    Ad informare la decisione dovrebbe essere, secondo chi scrive, il quadro internazionale sui diritti dei minori, in particolare la Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Non solo quest'ultima costituisce norma interposta ex art. 117 c. 1 della Costituzione italiana, bensì essa rientra pure tra le tradizioni costituzionali comuni dei Paesi membri europei ed è così parte del diritto primario dell'Unione. Troppo spesso, tuttavia, la Convenzione viene ancora considerata una "dichiarazione di amore", o un mero orientamento di policy, piuttosto che come un trattato giuridicamente vincolante.

    Oltre a richiedere efficaci istanze di protezione nei confronti degli abusi sessuali, la Convenzione impone di rispettare e promuovere i diritti del minore e, con essi, la sua autonomia, in maniera crescente all'aumentare dell'età. In tal luce, autorevoli organismi internazionali hanno ritenuto che il sexting minorile, qualora privo di qualsiasi abusività, non debba essere punito. Così si sono espressi il Comitato di Lanzarote (l’organismo del Consiglio d’Europa a monitoraggio della Convenzione sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e gli abusi sessuali), il Relatore speciale ONU sul diritto alla privacy e, recentissimamente, il Comitato ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Se scevro di abusività, il sexting rientrerebbe infatti nell'ambito di vita privata del minore e costituirebbe espressione della sua libertà sessuale. Oltre a essere inefficace, una penalizzazione di tale diffuso fenomeno renderebbe inoltre criminale un numero amplissimo di minori (e che reato!), in aperta contraddizione con l'extrema ratio che deve improntare la risposta penale, in particolare nei confronti dei minori.

    La presentazione ripercorrerà la recente evoluzione della giurisprudenza della Cassazione, illustrerà le principali prese di posizioni internazionali sul punto e proporrà alcune vie per una disciplina del sexting che concili i diritti dei minori, le loro necessità di tutela e il contrasto generalpreventivo alla pedopornografia.


  • Federico Furia – Le responsabilità del sanitario nello scenario pandemico

    Dalle a-tecnicamente definite “norme-scudo” all’estensione del sistema di responsabilità degli enti da reato alle strutture medico-assistenziali, diverse sono state le proposte con cui si è provato, su differenti livelli, a rispondere alle problematiche poste dalla pandemia sanitaria legata al “Covid-19”. Tale evento, di assoluta eccezionalità per gravità e diffusione, ha infatti colto impreparato non solo il Sistema Sanitario Nazionale (e le sue diverse articolazioni) ma anche il settore della responsabilità medica penale, per quanto lo stesso fosse stato oggetto, in tempi molto recenti, di ben due (tormentate) riforme.

    Il principale punctum pruriens, rispetto al tema di interesse, è rappresentato dalla ricerca di un equilibrio tra responsabilità penale dei sanitari e contesto emergenziale. È risultato evidente sin da subito, infatti, che operare in un contesto emergenziale invece che in situazioni di “normalità” spostasse il confine del c.d. “rischio lecito” insito nelle attività pericolose ma necessarie imponendo nuove e diverse considerazioni di politica-criminale. A differenti soluzioni suggerite a quadro normativo immutato, il legislatore ha ritenuto preferibile percorrere la strada interventista - da più parti evocata - attraverso l’introduzione di due ravvicinate novità legislative: una di portata limitata all’attività di vaccinazione (l’art. 3 del D.L. n. 44/2021) ed un’altra potenzialmente riguardante l’intera attività medica (l’art. 3-bis, introdotto in sede di conversione del citato Decreto Legge).

    A tacer d’altro, è rimasto maggiormente nascosto, forse perché più tecnico e dunque mass-mediaticamente avvertito come meno tuonante, il tema della corretta individuazione e riparto delle responsabilità all’interno delle strutture medico-sanitarie. Si è così riaperto il dibattito sulla necessità di indagare, oltre al piano individuale, anche quello “collettivo”. Con tale espressione, penalmente urticante se rapportata al superiore principio di responsabilità penale personale, si vuole riferirsi alla responsabilità da reato delle strutture sanitarie ex D. Lgs. n. 231/01. La necessaria presa di coscienza che l’atto medico sia oggi la minima parte di un’attività pluri-strutturata su diversi livelli, impone infatti di indagare anche il contesto e l’organizzazione nel quale esso avviene. Perlomeno se si vuole evitare il rapido passaggio da “eroi” a “capri espiatori” (evocativa espressione coniata altrove) dei sanitari coinvolti nella gestione dell’emergenza COVID-19.

    Con la presente relazione si proveranno dunque a ripercorrere, nei tempi concessi, le diverse posizioni che hanno ricercato un punto di equilibrio nel sistema della responsabilità medica emergenziale, fino ad arrivare alle soluzioni introdotte in via legislativa. In seguito, verrà brevemente inquadrato lo stato dell’arte del “sistema 231/01”, vagliando la possibilità e comunque l’opportunità che esso venga applicato alle strutture medico-assistenziali.

• Andrea Tigrino – La legislazione sul fine vita nella prospettiva comparatistica

Prendendo avvio dai più recenti arresti giurisprudenziali italiani in tema di fine vita e premesse brevi considerazioni intorno al Decreto n. 109/XVI del 12 febbraio 2021 (immediatamente “paralizzato” dall'intervento del Tribunal Constitucional portoghese su richiesta formulata dal Presidente della Repubblica Marcelo Rebelo de Sousa), l'attenzione si focalizza sullo stato attuale del dibattito in Germania e Spagna, laddove una significativa pronuncia del Bundesverfassungsgericht (BverG - 2 BvR 2347/15) e la storica Ley Orgánica de regulación de la eutanasia del 18 marzo 2021 hanno offerto spunti di riflessione eccedenti il confronto sulla liceità delle sole ipotesi di aiuto al suicidio. In particolare, proprio la novella spagnola ha nel suo Preámbulo qualificato come “diritto” l'accesso a prestazioni di aiuto a morire ricomprendenti tanto la prescrizione del farmaco da parte del personale sanitario quanto la somministrazione del medesimo da parte di quest'ultimo, abbattendo di fatto qualunque distinzione fondata sull'identità dell'esecutore finale. Tale premessa, così come i requisiti imposti per l'accesso e il corretto svolgimento di tali procedure (fra cui l'inclusione delle “sofferenze gravi, croniche e debilitanti” a fianco delle “patologie gravi e incurabili” e una chiara presa di posizione in tema di obiezione di coscienza), costituiscono senza dubbio elementi ispiratori per il silente legislatore italiano.

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