Abstract delle relazioni dell'ottava edizione

 Lunedì 27 giugno – Sessione pomeridiana (14.30 – 18.30)


1) La promozione del diritto penale a livello internazionale


Giulia Rizzo Minelli – Università di Bologna

Disastri ambientali e crimini internazionali. Considerazioni sul ruolo del diritto penale internazionale nel contrasto agli environmental damages


La crescente proliferazione di una normativa coordinata a livello internazionale, in grado di imporre stringenti limiti allo svolgimento di attività umane che presentano un rischio grave per l’ambiente, non appaga le istanze dell’opinione pubblica mondiale, che spesso invoca strumenti sovranazionali per la repressione delle condotte ascrivibili alla categoria dei reati ambientali. Se dinnanzi a macro-disastri ambientali fioriscono iniziative per individuare risposte adeguate, di recente ha trovato supporto la proposta di allargare le competenze della Corte penale internazionale ai crimini ambientali, elevando così la prospettiva penalistica di tutela delle risorse ambientali ad una dimensione di rango sovranazionale. 

Se vi sono fondate e apprezzabili ragioni a sostegno della decisione di far rientrare nell’alveo di competenza della Corte anche le gravi aggressioni alle risorse naturali, la pratica attuazione di tale proposito non appare agevole, sia in ragione del proprio ambito operativo – strettamente limitato dallo Statuto di Roma al perseguimento dei crimini più gravi di interesse internazionale, attualmente identificati come genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e aggressione – sia per la difficoltà di individuare una definizione soddisfacente di ambiente, che non trova riscontro nei trattati internazionali.

La relazione intende approfondire il trattamento che i crimini ambientali ricevono nel diritto penale internazionale, vagliando le soluzioni prospettate per poter estendere la competenza della Corte anche ai crimini contro l’ambiente. Verranno quindi valutate sia la possibilità per la Corte di gestire con i propri attuali “strumenti” anche casi che determinano danni all’ambiente, sia l’opportunità di introdurre un nuovo specifico crimine (quello c.d. di ecocidio) nel novero di quelli che possono essere sottoposti alla sua giurisdizione.


Gianmarco Bondi – Università di Ferrara

Fattispecie autonoma o circostanza di reato? Gli interrogativi posti dall’art. 613 bis co. 2 c.p. rispetto agli obblighi positivi di tutela penale nella CEDU


Il risalente dibattito circa i criteri distintivi tra fattispecie autonoma o circostanza di reato rimane tutt’ora irrisolto, specie in ragione di una giurisprudenza delle Sezioni Unite non sempre coerente e dell’assenza di un intervento chiarificatore del legislatore.

Un esempio di una nuova fattispecie «ostinatamente dubbia» è certamente quello del delitto di tortura all’art. 613 bis c.p. In particolare, il primo comma descrive la tortura c.d. privata, perpetrata, cioè, da una persona che non è un agente statale, mentre il secondo attiene a quella c.d. pubblica, che vede quale soggetto attivo il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio.

Segnatamente, il capoverso in questione opera un rinvio al primo comma, aggiungendovi la previsione secondo la quale devono esservi anche l’abuso dei poteri oppure la violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio.

Pur nella relativa prossimità temporale dell’adozione della novella di cui alla L. 110/2017, la dottrina e la giurisprudenza tanto di legittimità quanto di merito già risultano spaccate sulla natura della tortura c.d. pubblica, se di reato a sé oppure di accidentalia delicti.

Tendenzialmente, le ragioni addotte da parte di chi sostiene la prima tesi sono imperniate sui criteri strutturale e teleologico e, altresì, su quello sistematico. Inoltre, rimane sottesa la preoccupazione che, laddove di fattispecie autonoma non si trattasse, si applicherebbe una sanzione meno grave, offrendo il fianco a un’inottemperanza agli obblighi positivi di tutela penale di provenienza CEDU.

La presente relazione intende dimostrare, come, al contrario, l’art. 613 bis co. 2 c.p. costituisca una circostanza aggravante c.d. indipendente del relativo comma 1. Tale conclusione trova conforto nel più recente indirizzo delle Sezioni Unite e nei criteri testuale o topografico, oltre che negli stessi strutturale, teleologico e sistematico. Successivamente, si vuole dedicare precipua attenzione ai rischi in chiave costituzionale derivanti da un’interpretazione ECHR-oriented in questo settore.

Infine, si tenta di avanzare alcune proposte di riforma che possano aiutare nel distinguere adeguatamente tra la tortura c.d. privata e quella c.d. pubblica, con lo scopo di assicurare sia una migliore prevedibilità della disposizione sia un più attento ossequio alle convenzioni internazionali.


2) Questioni attuali di diritto penale comparato


Alice Giannini – Università degli Studi di Firenze, Maastricht University 

Il folle reo: spunti per una riflessione comparata in tema di insanity defense, imputabilità e vizio totale di mente 


L’obiettivo che l'intervento si propone è quello di fornire elementi di riflessione su punti di incontro, e di scontro, tra la disciplina del folle reo in Italia e negli Stati Uniti. Partendo dalla recente sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti (United States Supreme Court – SCOTUS) Kahler v. Kansas, verranno messi a confronto due “titani”: l’istituto dell’insanity defense negli Stati Uniti e quello dell’imputabilità in Italia. La recente sentenza della SCOTUS, infatti, sancisce che la Costituzione americana non pone alcuna costrizione nei confronti dello stato che voglia adottare varianti più restrittive dell’insanity defense, quali il c.d. mens rea approach, abbandonando il M’Nagthen test. Quest’ultimo è ancora oggi lo standard più diffuso fra gli stati confederati. Postula che non vi possa essere responsabilità penale per l’imputato affetto da una malattia mentale tale per cui egli, al momento del fatto, non era in grado di comprendere la natura e la qualità dell’atto commesso (cognitive test) o di comprendere se l’atto in sé fosse giusto o sbagliato (right-and-wrong test). Al contrario, la variante di tale istituto adottata in Kansas, oggetto di scrutinio da parte della SCOTUS, attribuisce rilevanza alla presenza di una malattia mentale dell’imputato esclusivamente qualora questa escluda la sussistenza dell’elemento soggettivo, nella formulazione prevista dalla singola fattispecie di volta in volta applicabile. 

Rivolgendo lo sguardo in Italia, oggi più che mai è vero che "fra le rade, spiagge e baie ancora sconosciute sia da annoverare la categoria dell’imputabilità” (Bertolino, 1990). L'imputabilità è il cuore pulsante del diritto penale. La sua stessa collocazione dogmatica, ossia se questa possa essere ritenuta elemento o meno della struttura del reato, e i suoi rapporti con la colpevolezza, rappresenta tutt’ora un tema focale della dottrina penalistica italiana. 

Questi sono i due mondi che verranno messi a confronto. Un'analisi di questo tipo, ancor di più se comparata, richiede allo studioso lo sforzo di fare un vero e proprio esercizio di mental gymnastics tra concetti complessi quali le nozioni di imputabilità e di colpevolezza. Affinché tale operazione abbia successo, verranno scomposti gli istituti analizzati, eseguendo una vera e propria fattorizzazione finalizzata ad individuare i concetti giuridici oggetto di scrutinio.


Federica Helferich - Università degli Studi di Firenze, Goethe-Universität Frankfurt am Main 

Le attività riciclatorie su utilità di origine criminosa: quale offensività? un’indagine comparata tra Italia e Germania 

Per la sua pervasività e inafferrabilità, il riciclaggio continua a occupare un posto di rilievo nelle agende degli organismi sovranazionali e, di conseguenza, a impegnare i legislatori nazionali. Il costante zelo e le tante manipolazioni di cui la normativa repressiva e preventiva del riciclaggio sono oggetto, tuttavia, non solo non paiono giovare al dibattito penalistico attorno alla ratio puniendi e alle modalità di criminalizzazione del riciclaggio, ma addirittura aggravano l’insoddisfazione che tale dibattito contraddistingue. 

Partendo da tale premessa, ci si interrogherà sull’offensività del reato di riciclaggio di cui all’articolo 648-bis del nostro Codice penale: il cui disvalore è tutt’oggi ritenuto oscillare tra la perpetuazione dell’offesa cagionata dal reato-presupposto e l’inquinamento del tessuto economico, e del quale appare dunque oltremodo opportuna una riscrittura. Poiché simili ambiguità in punto di offensività si riscontrano anche nella repressione del riciclaggio in Germania, instaureremo un dialogo tra l’art. 648-bis c.p. e la Geldwäsche tedesca (§ 261 StGB), comparando le istanze politico-criminali soggiacenti alle due norme e le rispettive evoluzioni fenomeniche e legislative. 

E proprio perché – tanto in Italia quanto in Germania – tra il fatto riciclatorio e la corrispondente fattispecie penale esiste una viscerale e inscindibile connessione, nell’indagare l’offensività del riciclaggio non distingueremo tra il fenomeno, da un lato, e la fattispecie, dall’altro, bensì prenderemo le mosse da tre nodi problematici all’interno dei quali fenomeno e norma continuano a riprodurre la loro relazione simbiotica. 

In un primo momento, stante la natura di reato accessorio del riciclaggio, affronteremo il tema della provenienza dell’utilità oggetto di condotte riciclatorie dal c.d. reato-presupposto, esaminando la relazione tra provenienza criminosa e disvalore. Si farà a tal fine riferimento sia alla disciplina di prevenzione del riciclaggio (e, in particolare, agli obblighi di collaborazione attiva in capo ai privati), sia all’ordito strutturale del reato. A tal proposito, ci soffermeremo sul recente ampliamento del novero dei reati- presupposto nell’art. 648-bis c.p. e in seno al § 261 StGB. 

In secondo luogo ci interesseremo a quelle attività che, siccome compiute su un’utilità di origine criminosa, sono sussumibili entro il paradigma riciclatorio. Partendo dalle declinazioni economiche ed empiriche della nozione di money laundering e dalla sua qualificazione negli strumenti normativi sovranazionali, analizzeremo le condotte tipiche ai sensi dell’art. 648-bis c.p. e del § 261 StGB: condotte, queste, che per la loro ampiezza faticano a veicolare e incarnare un disvalore univoco e afferrabile. 

Infine, ci soffermeremo sul tema del soggetto che compie attività riciclatorie su un determinato provento e, in particolare, sull’ipotesi di coincidenza tra colui che ha commesso il reato-presupposto e colui che ‘ricicla’ il provento così ottenuto. Ci chiederemo, dunque, quale significato possa assumere la figura criminosa del self laundering (art. 648-ter.1 c.p.; § 261 Abs. 9 StGB) per l’indagine sull’offensività del riciclaggio. 


Francesca Ricci – Università di Perugia

Proibizionismo penale e prostituzione. Prospettive di riforma in chiave comparata


La ritenuta immoralità di certi comportamenti può costituire la ragione sufficiente perché il diritto li punisca? Un diritto penale proibizionista è strumento idoneo alla riduzione di fenomeni sociali considerati sconvenienti da un punto di vista morale? I valori culturali si possono legittimamente attuare e consolidare attraverso la forza della legge penale?

E’ da questi interrogativi di fondo che vuol partire la riflessione presente. 

La Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 141 del 2019, ribadita nei suoi contenuti dalla sentenza 20 dicembre 2019 n. 278, ha ritenuto conformi alla Carta fondamentale le norme della legge Merlin che prevedono la punibilità del reclutamento, del favoreggiamento e della tolleranza dell’attività di prostituzione altrui. Tale orientamento della Corte è sembrato ad alcuni riproporre un moralismo giuridico, o <<paternalismo morale>>, in contrasto con un diritto penale improntato al rispetto del principio di laicità.

Se infatti non si discute che debbano essere oggetto di repressione penale i casi di prostituzione coatta e abusiva, o di vero e proprio sfruttamento sessuale di esseri umani a scopi economici, la questione della liberalizzazione si pone esclusivamente per le ipotesi di prostituzione volontaria o per libera scelta. È qui che si incentra il dibattito, e che si pone la domanda se punire ed entro quali limiti, se esistano davvero beni giuridici meritevoli di tutela, quale sia il danno e quale l’offesa relativi. 

Legalizzare, o meglio regolamentare la prostituzione, non dovrebbe significare favorirla. 

Secondo alcuni autori, infatti, il modello abolizionista, adottato in Italia con la legge n. 75 del 1958, si pone un obiettivo in realtà chimerico, proprio perché pretenderebbe di “abolire” un fenomeno non realisticamente azzerabile, neppure contenibile in misura minima, ma solo disciplinabile per renderlo il più possibile consono alla stessa dignità del sex worker. In un’ottica regolamentarista avanzata, si potrebbe finalmente riconoscere in chi si prostituisce, ai fini di una sua effettiva (e non solo declamata) protezione, il ruolo di lavoratore autonomo (o di socio in cooperative autogestite), introducendo eventualmente la punibilità, come avviene nel Regno Unito, del cliente consapevole di avere un rapporto mercenario con un soggetto – che egli sa essere –  sfruttato da terzi.

In termini di principio, si può tracciare infine un parallelismo con la pronuncia n. 242/2019 della Consulta sul caso Cappato, rimarcando l’importanza di una cesura netta, in termini attuali, fra la nozione di peccato morale e la nozione di reato, ponendo l’accento sul principio di extrema ratio della sanzione penale. Proprio le riflessioni in corso sull’eutanasia attiva sembrano infatti spingere con decisione a una ripresa della questione criminale anche a proposito della prostituzione libera e volontaria. 


Martedì 28 giugno – Sessione mattutina (9.00 – 13.00)


3) La cornice costituzionale della sanzione penale


Gianluca Taiani - Università di Udine

Il sindacato sulla misura della pena nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale 


Il principio di legalità penale versa in una crisi denunciata da più voci, ormai da tempo riunite in un coro unanime. Al turbamento del principio, che postula la consonanza tra diritto penale e legge, contribuiscono tanto fattori endogeni, quali la decodificazione e l’utilizzo compulsivo della legislazione penale, quanto i fattori esogeni scaturenti dal necessario e crescente dialogo con le fonti sovranazionali e i loro giudici. 

In questo elenco si iscrive anche il sindacato di legittimità costituzionale sulle scelte legislative in materia penale. La Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 236 del 2016, ha progressivamente abbandonato il più cauto atteggiamento tenuto nei primi decenni della sua attività, manifestando la propensione ad un uso più penetrante delle decisioni manipolative con riferimento alle scelte sanzionatorie operate dal Legislatore. 

Inaugurata questa nuova stagione, la Consulta ha individuato il referente privilegiato del proprio sindacato nel principio di proporzionalità della pena, ancorandolo ai principi di eguaglianza e a quello della finalità rieducativa della sanzione penale. La forza di questo nuovo sindacato sulle cornici edittali manifestamente sproporzionate risiede nell’inedito congedo dallo schema triadico (o meglio, nella sua ristrutturazione) e nell’approdo verso valutazioni di proporzionalità intrinseca. 

Nel salto dalle “rime obbligate” alle “rime possibili” la Corte ridimensiona la preoccupazione di invadere gli spazi di discrezionalità del Legislatore - testimoniata dai plurimi moniti inascoltati rivolti al Parlamento - e intraprende un ruolo attivo nella tutela dei diritti individuali e nella garanzia della coerenza delle scelte sanzionatorie, spesso ostaggio di scelte simboliche di criminalizzazione. Le pronunce più recenti della Consulta offrono lo spunto per individuare i caratteri di ammissibilità di un così pervasivo sindacato e per riflettere sulla possibilità di una sua estensione al diritto amministrativo punitivo. 


Camilla Menegoni – Università di Trento

La disciplina intertemporale in materia di esecuzione della pena

 

L'influenza del diritto sovranazionale, l'ampliamento del concetto di “materia penale” e la prospettiva “integrata” della legalità hanno portato ad una progressiva ridefinizione del perimetro applicativo delle garanzie intertemporali in materia di norme sull'esecuzione della pena, comprese quelle sui benefici penitenziari e sulle misure alternative, sempre considerate dalla giurisprudenza - fino alla recente sentenza n. 32/2020 della Corte Costituzionale - di natura processuale e sottratte pertanto al divieto di retroattività sfavorevole sancito dall’art. 25, 2° co. Cost..

L’'approccio sostanzialistico della Corte Edu ha dato l'impulso per riconsiderare la formalistica distinzione tra norme penali sostanziali e processuali nell'ottica di estendere il divieto di retroattività in malam partem alle modifiche legislative incidenti in via diretta sulla qualità e sulla durata della pena. 

L'impostazione della Cedu, per cui la disciplina prevista per la successione di leggi può riferirsi anche ai mutamenti giurisprudenziali in ossequio ad una prospettiva "integrata" delle diverse concezioni della legalità, può dischiudere sul piano interno un orizzonte di nuove riflessioni, in virtù dell'art. 35-ter o.p. - ove il legislatore ha formalmente affermato il valore dei precedenti della Corte Edu come fonte vincolante del diritto - e delle riflessioni sugli effetti del revirement sfavorevole compiuto nella sentenza Mursic c. Croazia in punto di modalità di computo dello spazio c.d. minimo vitale per il detenuto.

I principi di garanzia vivono un periodo di forte sollecitazione da parte della prassi giuridica contemporanea, ove da tempo predominano accese pulsioni punitive più che le tradizionali istanze di libertà: il principio di irretroattività sfavorevole sembra quello maggiormente messo in discussione.

La relazione, analizzando la materia di esecuzione della pena nel prisma dei principi costituzionali e convenzionali, mira a cogliere i punti di arrivo e di ripartenza a cui si è giunti, evidenziando quali criticità sono state superate e, viceversa, quali aspetti sono rimasti ancora insoluti 

4) Opportunità e limiti delle alternative alle pene tradizionali


Davide Attanasio – Università degli Studi di Torino 

Le criticità persistenti della confisca di prevenzione nella prospettiva delle fonti sovranazionali 


La confisca (rectius: le confische) rappresenta da tempo uno dei principali strumenti cui i legislatori nazionali fanno ricorso nell’ambito delle politiche di asset recovery al fine di fronteggiare i fenomeni del crimine organizzato e, più in generale, della criminalità del profitto. In molti ordinamenti giuridici – fra cui quello italiano può sicuramente essere annoverato tra i ‘capofila’ – può osservarsi, dietro l’idea per cui il crimine non paga (o non deve pagare), un’estensione dell’ambito applicativo di ‘moderni’ modelli di ablazione patrimoniale, con i quali si intende porre rimedio alla lamentata ineffettività delle soluzioni ‘originarie’ di confisca. In questa direzione, si impongono gli schemi confiscatori che – con vocazione spiccatamente efficientistica e quindi non di rado a pregiudizio di un adeguato statuto garantistico – mirano a privare il destinatario della misura della ricchezza acquisita in maniera presuntivamente illecita (così la confisca allargata e di prevenzione previste nell’ordinamento italiano). 

Una tale evoluzione politico-criminale trova solida sponda nelle fonti sovranazionali – tanto di matrice eurounitaria, quanto internazionale – che prospettano un ricorso su larga portata a misure confiscatorie di varia natura e modalità. Nel contesto eurounitario, in particolare, vengono in rilievo la Direttiva 2014/42/UE e, più di recente e con effetti ancora più dirompenti negli ordinamenti dei singoli Stati membri, il Regolamento (UE) 2018/1805 relativo al mutuo riconoscimento dei provvedimenti di congelamento (freezing orders) e confisca (confiscation orders) entrato in vigore il 19 dicembre 2020. 

Gli interrogativi della relazione qui proposta si muovono nel quadro delle fonti dell’Unione Europea, che, seppur lentamente, sembra convergere verso la ricerca di un modello europeo comune di confisca non basata sulla condanna. Si intende dunque analizzare il tema della compatibilità della confisca di prevenzione ex art. 24, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 con il summenzionato Regolamento, che, nella definizione del relativo perimetro di applicazione, rinvia a provvedimenti di confisca emessi nell’ambito di procedimenti in materia penale rispetto ai quali è richiesta l’osservanza, oltre che dei diritti eurounitari fondamentali, anche delle garanzie essenziali previste dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea in relazione ai procedimenti penali in senso stretto. L’argomento – che verrà approfondito anche dall’angolo visuale della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – ricopre una significativa rilevanza a voler considerare la facoltà degli Stati di non eseguire un provvedimento di confisca qualora, in circostanze eccezionali, vi sia motivo di ritenere che l’esecuzione della misura possa comportare una violazione di un diritto fondamentale della Carta. Conclusivamente, si cercheranno di rappresentare, anche alla luce dell’adozione del Regolamento UE, i possibili futuri scenari relativi allo statuto garantistico della confisca di prevenzione e, più in generale, di un rinnovato modello europeo non-conviction-based.


Valentina Semplice – Università Federico II

L’interdittiva antimafia come “anestetico” alla normazione dell’emergenza: tra garanzie individuali ed effettività


Un angolo prospettico da cui indagare la reazione ordinamentale alle congiunture economiche e sociali negative scaturite dalla diffusione pandemica del virus COVID-19 è costituito dall’implementazione prasseologica degli istituti della prevenzione antimafia. L’attuale trend normativo assume tra gli obiettivi prioritari di riforma lo snellimento delle procedure di aggiudicazione delle commesse pubbliche e l’introduzione di forme di finanziamento agevolato per le imprese; a ciò, però, fa da pendant il rischio di una incontrollata infiltrazione mafiosa nell’economia legale. Lo strumentario delle interdittive antimafia si è rivelato tanto elastico e flessibile nei suoi presupposti da essere individuato, nella prassi applicativa, quale valida misura di contenimento del rischio suddetto. 

Come noto, l’informativa e la comunicazione interdittive determinano una peculiare incapacità giuridica del destinatario, cui viene negata la titolarità di situazioni giuridiche soggettive – siano interessi legittimi o diritti soggettivi – nei confronti della Pubblica Amministrazione e, per l’effetto, sono preclusi l’aggiudicazione di contratti pubblici, l’erogazione di sovvenzioni, nonché l’ottenimento di provvedimenti autorizzatori necessari per l’esercizio di attività economiche, quand’anche meramente private. Segnatamente, l’informativa interdittiva si fonda sul riscontro, ad opera dell’autorità prefettizia, della “permeabilità mafiosa” dell’impresa interessata da un procedimento amministrativo: è una valutazione discrezionale, prognostica e probabilistica, solo in parte guidata dal dato normativo mediante la predisposizione di “indici-criteri” esemplificativi. 

La relazione vuole interrogarsi sulla compatibilità costituzionale e convenzionale dell’istituto, che si affianca, nell’impianto del Codice antimafia, alle misure di prevenzione, di cui ripete la ratio anticipatoria, ma ne acuisce le criticità assiologiche, difettando della garanzia della riserva di giurisdizione. 

I piani di indagine sono molteplici. Il primo ha ad oggetto la possibile sussunzione dei provvedimenti interdittivi nella categoria convenzionale, costruita mediante i cc.dd. Engel criteria, delle sanzioni formalmente amministrative ma sostanzialmente penali. Invero, la documentazione interdittiva sottende interessi sovente assunti dall’ordinamento penale ad obiettivi di tutela e produce effetti fortemente limitativi delle libertà individuali – tra tutte, della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. –. In secondo luogo, il meccanismo interdittivo, per come congegnato dal legislatore, va sottoposto al test di compatibilità con gli standard costituzionali di garanzia sostanziale e procedurale, siano essi quelli propriamente penalistici o quelli afferenti al “diritto amministrativo sanzionatorio”. Da ultimo, occorre chiedersi se l’attuale assetto normativo riesca a coniugare l’effettività degli strumenti di difesa sociale e la tutela delle libertà individuali: se, cioè, esso riesca nell’obiettivo di neutralizzare o, quanto meno, arginare i fenomeni della “mafia imprenditrice” e della “mafia para-Stato”. Le criticità riscontrate all’esito dell’analisi descritta verranno confrontate con le modifiche apportate al Codice antimafia dal d.l. 6 novembre 2021, n. 152. La novella muove dalla prospettiva dell’informativa interdittiva quale extrema ratio nel sistema della prevenzione antimafia e, in particolare, da un lato, irrobustisce le garanzie partecipative del destinatario e, dall’altro, introduce nuovi meccanismi di intervento, con funzione collaborativa e non interdittiva, per condotte di agevolazione mafiosa meramente occasionale.


Pierluigi Zarra – Università di Foggia

Interdittive antimafia: la polisemia preventiva ed i profili critici in rapporto alle prerogative penali ed ai dogmi costituzionali della libera iniziativa economica


La tematica delle c.d. sanzioni amministrative – istitutive del nuovo diritto amministrativo della criminalità – suscita particolare interesse in sede di ricerca, specie per le interdittive antimafia, giacché queste misure segnano il passaggio da un sistema preventivo, marcatamente penale, ad una strategia di politica-criminale che si incentra, di contro, ad una quasi totale espulsione della natura afflittiva penale per le misure di tal specie; pertanto, l’attività di contrasto alla propagazione di fenomeni mafiosi non è caratterizzata da misure squisitamente penali, ma è implementata da strumenti amministrativi. Sebbene le interdittive assolvono ad un ruolo di primazia nelle dinamiche di lotta alla criminalità organizzata, questa presentano delle criticità, in rapporto alla loro natura, se si considera il rischio che lo strumento extrapenale costituisca una manovra elusiva delle classiche garanzie del diritto penale – tassatività, determinatezza, proporzionalità, offensività e colpevolezza - soprattutto in rapporto all’effettiva consumazione dell’illecito e, quindi, all’incisione sostanzialmente che si realizza sull’esercizio dei diritti essenziali in via generale ed alla prerogative sostanziali e processuali di garanzia penale. 

Occorre domandarsi se tali misure possano infliggere un pati di notevole rilievo collegato alla commissione di pregresse attività illecite e, dunque, attribuire all’interdittiva antimafia un contenuto strettamente affittivo che rispecchia la classica struttura punitiva e, di conseguenza, quale sia la relazione fra queste e gli Engel criteria. 

Ciò posto, tali strumenti presentano deficit particolarmente rilevanti, per quel che riguarda anche il contraddittorio e per l’accentramento di eccessivi poteri del Prefetto, in virtù dell’indeterminatezza normativa e dei parametri su cui si basa la struttura interdittiva, attribuendo al Prefetto la più ampia discrezionalità nel disporre l’interdittiva generica, omettendo, qualora non ritenga indispensabile, qualsiasi audizione del destinatario della predetta misura. 


Federica Raffone – Università di Modena e Reggio Emilia

I rapporti tra l'illecito penale e l'illecito amministrativo nel sistema punitivo agroalimentare


Il “sistema punitivo” agroalimentare rappresenta un emblematico esempio di assetto sanzionatorio “complesso”, in cui coabitano illecito penale ed illecito amministrativo in stretta sinergia. Questo sistema può essere rappresentato e semplificato con varie figure concettuali: un approccio piuttosto chiaro al problema delle fonti è la suddivisione della materia in livelli di tutela eterogenei e comunicanti. Al primo livello si collocano essenzialmente le contravvenzioni e gli illeciti amministrativi contenuti nelle numerose leggi speciali cc.dd. “specifiche”, che riguardano singoli prodotti alimentari o classi merceologiche. Su di un livello superiore, invece, si trovano le contravvenzioni e gli illeciti amministrativi inseriti nella diversa legge speciale c.d. “generale” (l. n. 283 del 1962). Da ultimo, esistono i delitti codicistici (Kernstrafrecht) a tutela della salute (artt. 439 c.p. e ss.) e della lealtà del commercio (artt. 515 c.p. e ss.). Ad un’analisi approfondita della materia punitiva agroalimentare gli illeciti amministrativi, benché numericamente superiori, sembrerebbero cedere sostanziale operatività all’illecito penale. Lo scopo dell’intervento è di illustrare almeno tre evidenze che potrebbero spiegare questa peculiare prevalenza dell’illecito penale. In primo luogo, si dovrà dare atto dell’esistenza di una deroga in materia di specialità amministrativa, così come stabilisce l’art. 9 della L. 689/1981 che enuncia il principio di prevalenza dell’illecito penale nei casi di convergenza apparente con la disposizione amministrativa. In secondo luogo, si cercherà di analizzare il “problema” della eterointegrazione normativa in funzione di specificazione tecnica, tramite rinvio implicito o esplicito, operato sia in riferimento ai delitti codicistici che alle contravvenzioni di cui all’art. 5 della L.283/1962, per es. per ciò che concerne i contrassegni relativi a standard di igiene, genuinità o integrità degli alimenti, concetti spesso contenuti proprio nelle leggi speciali c.d. specifiche. Da ultimo, sarà analizzato l’andamento della giurisprudenza e gli indebiti spazi, in questa materia, dell’interpretazione analogica in malam partem.

Martedì 28 giugno – Sessione pomeridiana (14.30 – 18.30)


5) Il contrasto alle pratiche corruttive


Nicoletta Ortu – Università La Sapienza

Gli accordi illeciti nel sottosistema delle fattispecie corruttive 


Parlare di corruzione, in senso lato, significa parlare di un fenomeno complesso, multiforme e interdisciplinare. Fenomeno che il legislatore penale traduce in un sistema di incriminazioni costruite attorno ad un accordo illecito, sul quale è incentrato il disvalore oggettivo delle condotte tipiche. 

Gli accordi astrattamente presi in considerazione dalla legge assumono caratteristiche e funzioni diverse a seconda di ciò che le diverse figure di reato mirano a reprimere: in questa materia, gli schemi negoziali attraverso i quali la volontà di soggetti intranei ed extranei alle Pubbliche Amministrazioni si incontra, nella loro molteplicità e varietà, permeano il diritto penale, divenendo gli elementi costitutivi centrali delle fattispecie incriminatrici. 

Ciò che con la relazione ci si propone di analizzare è, quindi, la conformazione, il contenuto e il ruolo del pactum sceleris all’interno tanto delle singole incriminazioni, quanto dell’architettura complessiva del micro-sistema corruttivo; prestando attenzione, nello specifico, alle tematiche che, nel panorama applicativo più recente, hanno destato particolari criticità, quali il rapporto tra delitti di corruzione e discrezionalità amministrativa, e il discrimen tra lecito e penalmente rilevante nella mediazione oggetto del traffico di influenze illecite. 

La prima questione, ad esempio, assai dibattuta in giurisprudenza, si pone nel cuore del fenomeno corruttivo, assumendo un rilievo ancora più cruciale nelle ipotesi di stabile “messa a libro paga” dell’agente pubblico agli interessi del privato, e mira ad indagare come possano inquadrarsi – se nell’ambito della corruzione per l’esercizio della funzione o della più grave corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – i casi in cui il pactum sceleris abbia ad oggetto il compimento di un’attività amministrativa di natura discrezionale da parte dell’intraneus. 

Altro problema attiene invece ad una fase anticipata e prodromica rispetto alla corruzione vera e propria. Riguarda gli accordi aventi ad oggetto un’influenza indebita sull’attività dei poteri pubblici, i quali si incardinano in quel “sottobosco” di relazioni e contatti tra agenti pubblici e privati, che segna la zona grigia tra lecito e illecito. Si tenterà, quindi, di comprendere in che misura e a quali condizioni simili accordi possano dirsi penalmente illeciti. 

Nel corso dell’intervento, dopo un breve excursus sullo stato dell’arte in materia di accordi illeciti 

nei reati di corruzione, volto ad evidenziarne le criticità, si esamineranno tali nodi ancora 

parzialmente irrisolti, con l’obiettivo di mettere a fuoco le specificità della questione in ciascuna 

delle ipotesi prese in considerazione e svolgere alcune riflessioni sul micro-sistema corruttivo nel 

suo complesso. 


Alessandro Sbarro – Università del Salento

Lobbying e traffico di influenze illecite: criticità assiologiche, ermeneutiche e probatorie.


Sin dalla sua introduzione con l. 6 novembre 2012, n. 190, il delitto di “Traffico di influenze illecite”, previsto e punito dall’art. 346-bis c.p., è stato oggetto di numerose riflessioni critiche: dalle inquietanti irradiazioni repressive che il delitto emanerebbe, quale traduzione normativa di un uso simbolico-propagandistico dello strumento punitivo, al suo evidente disallineamento rispetto alle più basilari garanzie in materia di normazione penale, specie con riferimento al principio di sufficiente determinatezza. A fronte di una formulazione del precetto alquanto nebulosa, tanto l’elaborazione dottrinale quanto il formante giurisprudenziale sono intervenuti al fine di meglio precisare l’area di significanza di taluni elementi tipici, di ardua decifrazione interpretativa. Cionondimeno, permangono numerose perplessità, alcune delle quali arrivano ad adombrare gli stessi confini normativi della rilevanza penale. In questa prospettiva, si intende anzitutto analizzare la complessa struttura della fattispecie incriminatrice, anche alla luce dei rapporti con quella di istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.). Nell’ambito di questa anticipata tutela, rispetto alla conclusione di accordi corruttivi, si tenta poi di individuare l’esatta soglia di rilevanza penale, posto che l’assenza di una normativa che disciplini l’attività di lobbying sembra affidare la questione alla libera intuizione del giudice. In ragione di ciò, infine, si intende sottoporre a revisione critica i più recenti arresti pretori sul necessario finalismo criminale delle attività di mediazione.


6) La “nuova” tutela penale del patrimonio culturale


Ugo Santoro – Università di Catania 

La riforma dei reati contro il patrimonio culturale. spunti critici sulla legge n. 22/2022 


La legge 9 marzo 2022, n. 22, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 22 marzo 2022, porta a compimento il lungo iter di riforma del c.d. diritto penale dei beni culturali, introducendo nel Codice penale il nuovo Titolo VIII-bis, rubricato “Dei delitti contro il patrimonio culturale”. 

L’urgenza di un riordino della materia si poteva apprezzare secondo due punti di vista, distinti ma complementari. 

D’un canto, era sempre più avvertita l’esigenza di dare piena attuazione alle direttive che promanano dalla Carta costituzionale, in un contesto di progressiva valorizzazione dei diritti c.d. “culturali” quali veri e propri diritti fondamentali dell’uomo. Ed invero, la coscienza del valore collettivo, sovranazionale e intergenerazionale del patrimonio culturale spingeva a considerare i beni culturali, sub specie iuris, non più secondo uno schema privatistico-dominicale, che ne cogliesse il mero valore commerciale, bensì secondo uno schema pubblicistico, che ne esaltasse – come “testimonianze aventi valore di civiltà” – la dimensione strumentale al “pieno sviluppo della persona umana” e alla costruzione di una società democratica, pacifica e giusta. 

Dall’altro canto, la necessità di fronteggiare i fenomeni criminali transnazionali con strategie condivise su base comune imponeva di conformare l’ordinamento italiano alle disposizioni contenute nelle principali fonti europee e internazionali, partendo dall’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulle infrazioni coinvolgenti i beni culturali, firmata a Nicosia nel 2017 e ratificata dall’Italia con la legge 21 gennaio 2022, n. 6. 

Pur riconoscendo il pregio della riforma de qua – da tempo invocata innanzi alla pervasività, alla rilevanza economica e alla dannosità sociale assunte dal fenomeno della criminalità nel settore dell’arte – non ci si può esimere dallo sforzo critico volto a vagliare la compatibilità delle scelte di politica criminale compiute dal Legislatore con i tradizionali canoni di garanzia del diritto penale. 

In un settore come quello di cui si tratta, segnato dal rilievo eminentemente evocativo del bene giuridico protetto, la moltiplicazione delle fattispecie incriminatrici, l’irrigidimento delle risposte sanzionatorie e le misure extra ordinem (confisca allargata, intercettazioni, disposizioni premiali) della legge n. 22/2022 sembrano ispirarsi alle logiche oramai abituali di un diritto penale “populista” (o meglio, usando un’espressione che pare cogliere nel segno, di un diritto penale “trending topic”). Sarebbe stato, forse, opportuno contenere l’intervento penalistico entro i limiti dell’extrema ratio, predisponendo – in ossequio ai principi di sussidiarietà, di meritevolezza della pena e di frammentarietà – un sistema di tutela progressivo e flessibile, che ricorresse agli strumenti propri di altre branche dell’ordinamento, idonei a salvaguardare il patrimonio culturale in modo più efficace ed efficiente, sia in fase preventiva che in fase repressiva. 


Giovanna Zampogna – Università mediterranea

La tutela penale dei beni culturali ai lumi della riforma


Si propone un’analisi della recente riforma delle disposizioni penali a protezione dei beni culturali, introdotta mediante la L. n. 2 del 2022. Riforma che ha dato attuazione alla Convenzione di Nicosia e che per di più conferma la centralità assunta dai beni artistici e culturali nella selezione degli interessi giuridici meritevoli di tutela penalistica. Ciò anche in virtù della polivalente rilevanza culturale, sociale, politica ed economica che rivestono.

Nel dichiarato intento di razionalizzare un quadro normativo per molti versi disorganico e incoerente, anche perché disordinatamente allocato in una pluralità di sede normative non facilmente accessibili, il riordino della materia è stato realizzato, in linea con la direttrice politico-legislativa della c.d. riserva di codice, mediante l’introduzione nel codice penale di un nuovo titolo VIII-bis, rubricato “Delitti contro il patrimonio culturale”. Vi sono collocati reati prima ripartiti tra codice penale e codice dei beni culturali, nonché nuove fattispecie criminose funzionali alla tutela di questo straordinario patrimonio. La riforma, oltre ad avere creato nuove figure di reato, ha introdotto anche un sistema di circostanze aggravanti applicabili a tutti i reati contro i beni culturali. Ciò nel caso in cui il danno sia di rilevante gravità, se il reato è commesso nell’esercizio di attività professionali o commerciali, se è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, preposto alla conservazione o alla tutela di beni culturali o se è commesso nell’ambito dell’associazione per delinquere di cui all’articolo 416 c.p. La pena è invece diminuita quando il danno è di speciale tenuità ovvero comporti un lucro di speciale tenuità ovvero l’evento dannoso o pericoloso sia anch’esso di speciale tenuità.

Non può trascurarsi poi la circostanza che le nuove disposizioni ampliano il catalogo dei reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ex d.lgs. 231 del 2001.

Sulla scia di precise sollecitazioni internazionali volte ad aggredire patrimoni di formazione illecita o anche solo sospetta, la riforma è intervenuta anche sull’art. 240-bis c.p. Lo ha fatto estendendo il catalogo dei delitti in relazione ai quali è consentita la confisca allargata, mediante l’inserimento dei reati di ricettazione di beni culturali, impiego di beni culturali provenienti da delitto, riciclaggio e autoriciclaggio di beni culturali.

In sintesi, queste scelte legislative puntano finalmente ad apprestare una più ampia tutela ad un bene addirittura dotato di rilevanza costituzionale, data la disposizione dell’art. 9 Cost. 

Sul piano descrittivo dell’oggetto della tutela, non vi è dubbio che campeggi anche il patrimonio, dato l’enorme valore economico dei beni culturali che deriva dalla loro non riproducibilità. È ovvio che nei beni culturali il valore è direttamente correlato alla originalità e al fatto che spesso si tratta di pezzi (se non addirittura di complessi) unici. In aggiunta vi è da rilevare che il bene rappresentato dal patrimonio culturale non è soltanto di natura materiale, bensì anche ideale. Intanto storica, dal momento che esso esprime una determinata fase della civiltà indicandone i tratti identitari più qualificanti, come il livello di cultura e di raffinatezza artistica, oltre che lo stato complessivo di maturità. Viene quindi in rilievo un valore non soltanto rievocativo e ricostruttivo, ma pienamente culturale. Ecco perché il bene giuridico che risulta delineato da simili riflessioni è polivalente e si direbbe, per la parte che ne rappresenta la portata ideale, del tutto refrattario ad una stima soltanto economica.

Un dato da non trascurare concerne anche la inclusione dei beni artistici e culturali nelle recenti attività del quadro della prima missione del PNRR, che contemplano sia interventi diretti sui beni culturali sia un’ampia digitalizzazione del patrimonio artistico e culturale al fine di una sua più diffusa fruizione.


7) Le responsabilità penali nelle crisi


Luca Franzetti – Università Statale di Milano

La responsabilità penale del liquidatore subentrante nei reati di omesso versamento: alla ricerca di un reale disvalore tra mero inadempimento e dolo eventuale


Oggetto della presente relazione è la responsabilità penale per i reati tributari di omesso versamento compiuti dal rappresentante legale di una società, subentrato al precedente in prossimità delle scadenze fiscali fissate per l’adempimento dell’obbligo tributario. In particolare, ci si soffermerà sulla figura del liquidatore e sul peculiare ruolo che esso riveste nel contesto della crisi dell’impresa, evidenziando le criticità in ordine alla delimitazione della sua responsabilità e all’accertamento dell’elemento soggettivo. Come noto, infatti, l’art. 36 d.p.r. 602/1973, che fissa i limiti della responsabilità civile del liquidatore nel contesto della sua attività, secondo un certo – preferibile – orientamento dovrebbe trovare applicazione anche sul piano della responsabilità penale per i reati di omesso versamento, limitando quest’ultima ai soli casi di distrazione dell’attivo della società in liquidazione dal fine di pagamento delle imposte. L’obiettivo è, dunque, quello di limitare la responsabilità penale ai soli casi realmente espressivi di un certo disvalore, con esclusione di tutte quelle ipotesi, in realtà meramente colpose e non certo dolose, in cui il mancato versamento sia dipeso da una crisi di liquidità, evitando, pertanto, di sanzionare il soggetto solamente in ragione della “posizione” che riveste.


Sara Prandi – Università di Genova

Gestione della crisi e diritto penale: limiti e prospettive del ricorso alla categoria dell’inesigibilità


Nel contesto della crisi che ha investito il Paese a partire dal 2020 e che ha inciso in modo rilevante su tutti i settori dell’ordinamento, la gestione dell’emergenza ha segnato l’avvio di una riflessione significativa anche sui limiti al ricorso al diritto penale. La preoccupazione per l’eccessività delle conseguenze sanzionatorie che, a sistema invariato, si sarebbero potute produrre a carico di numerosi individui - protagonisti nella gestione della crisi o vittime della stessa - ha infatti condotto a interrogarsi su quali fossero le soluzioni maggiormente idonee ad allocare il rischio-penale in modo ragionevole e conforme al dettato costituzionale. 

Accanto al dibattito circa l’approvazione di norme-scudo, alle proposte di nuove cause di non punibilità e alle riflessioni legate ad una più radicale riforma di sistema, si è discusso ampiamente anche della possibilità di valorizzare istituti e principi già presenti nell’ordinamento. In questo senso, non stupisce che la categoria dell’inesigibilità sia stata rievocata a più riprese dagli studiosi di diritto: sotto vari aspetti, infatti, l’attuale situazione di crisi incarna un paradigma efficace per lo studio dell’anomalia motivazionale in rapporto con la colpevolezza individuale. Tanto in relazione alla crisi sanitaria, quanto alla crisi economica che si prospetta quale conseguenza del periodo pandemico e delle restrizioni dallo stesso imposte, il particolare contesto di realizzazione del fatto - e l’influenza che lo stesso può aver giocato sulle scelte del singolo - manifesta una rilevanza innegabile nella valutazione del comportamento dell’agente e della sua colpevolezza. 

L’inesigibilità sembra così essere tornata al centro di un importante dibattito: in questo clima di rinnovata attenzione ad un tema da sempre controverso, si intende dunque impostare un’analisi che, combinando gli sforzi compiuti nel passato alle considerazioni ispirate dall’attualità, ne indaghi potenzialità e limiti, con specifica attenzione alla prospettiva della gestione delle crisi e del rischio penale ad esse connesso.


Mercoledì 29 giugno – Sessione mattutina (9.00 – 13.00)


8) La fisionomia della colpa punibile


Mattia Cutolo – Università di Foggia

L’eterno purgatorio della prevedibilità, tra criterio e principio. Panoramica e funzione all’interno del diritto penale


Il concetto di prevedibilità associato al diritto penale assume molteplici sfaccettature.

Nel senso che è nozione ricorrente sia nella teoria del reato e della pena, sia nelle forme di manifestazione e, come noto, nei principi costituzionali, con particolare riferimento al principio di legalità.

La riflessione che in questa sede si vuole affrontare consiste in un tentativo di ricostruzione del concetto di prevedibilità all’interno del diritto penale, prendendo come modelli paradigmatici alcuni singoli e specifici istituti di parte generale. Lo scopo è partire dall’analisi di questi τòποι per distinguere i casi in cui la prevedibilità è utilizzata come criterio, e quindi in ottica correttiva, per colmare una lacuna di disciplina; oppure quando è utilizzata come principio, e quindi in ottica propulsiva e fondante.

In altre parole, secondo il precetto aristotelico, il principio costituirebbe gnoseologicamente il punto di partenza nel processo conoscitivo di un fenomeno, mentre, al contrario, il criterio ne costituirebbe la conclusione, in una fase sussidiaria.

Più in particolare, ci si domanda quale forma assuma il concetto di prevedibilità associato alla misura soggettiva della colpa, ex art. 43 c.p., in forza della quale, ai fini della punibilità dell’agente, l’evento dannoso o pericoloso deve essere prevedibile ed evitabile; o, parimenti, quale forma assuma la prevedibilità con riferimento alla commisurazione della pena circa il grado della colpa, di cui all’art. 133 co. 1 n. 3 c.p.; oppure ancora, con riferimento al concorso anomalo, di cui all’art. 116 c.p., rispetto al quale il concorrente anomalo sarà responsabile per il reato diverso non voluto laddove questo fosse prevedibile, in concreto.

Il comun denominatore, in queste seppur diverse ipotesi, è intendere ed utilizzare la prevedibilità come coefficiente per circostanziare o concretizzare un determinato fatto o determinato giudizio.

Occorre, a questo punto, inserire nel ragionamento che si intende condurre, anche il punto di vista delle ormai celeberrime sentenze di Corte di cassazione e Corte costituzionale che assegnano alla pandemia da Covid-19 la natura di fatto extra ordinem. Tale connotazione ha comportato, in alcune pronunce, un’applicazione retroattiva in malam partem di una norma direttamente incidente sulla punibilità del soggetto attivo, andando inesorabilmente a frustrare gli scopi di tutela di cui all’art. 7 C.E.D.U., così come interpretato alla luce della giurisprudenza europea della Corte di Strasburgo.

Sorge, dunque, spontaneo chiedersi quale funzione la prevedibilità abbia assunto nell’analisi e ricostruzione dogmatica di queste paradigmatiche ipotesi, se abbia funto da criterio oppure da principio, quali siano le relative conseguenze, e nondimeno domandarsi quale ruolo la prevedibilità dovrebbe assumere, alla luce di un così largo utilizzo all’interno della scienza penalistica.


Marco Edgardo Florio – Università La Sapienza

La colpa grave: riflessioni de iure condito e de iure condendo 


Il presente intervento mira a fornire taluni spunti di riflessione su un tema che, dopo un lunghissimo oblio, si è imposto nuovamente all’attenzione della dottrina italiana soltanto in anni più recenti: quello della generalizzata riduzione del campo della responsabilità penale per colpa ai soli casi contrassegnati da c.d. “colpa grave”.

Verranno pertanto esaminate le ragioni che militano per un’estensione generalizzata di questa soluzione, senza differenziazioni di sorta dovute al tipo di professione svolta o di ruolo sociale rivestito dall’agente, nonché le strade – de iure condito e de iure condendo – mediante le quali la stessa potrebbe venire ad essere implementata – come già accaduto in altri sistemi giuridici – nel nostro ordinamento.

Si cercherà, peraltro, grazie anche all’ausilio delle riflessioni maturate dalla dottrina tedesca, spagnola e francese sul tema, di trattare brevemente quello che a tutti gli effetti può dirsi il punto più controverso della soluzione proposta (quale che sia la strada prescelta per implementarla all’interno del sistema italiano), ossia la delimitazione dei contorni di quella nebulosa entità che è la “colpa grave”. Nella consapevolezza della complessità della materia e, per contro, della necessaria brevità dell’intervento, ci si impegnerà a fornire qualche punto fermo, rispondendo concisamente ad alcuni dei molti interrogativi che aleggiano attorno alla natura e consistenza di questo problematico concetto.


9) Informatica, intelligenza artificiale e diritto penale


Marta Giuca – Università di Catania 

Negligenza artificiale. alcune riflessioni in tema di errore dell’algoritmo e colpa 


Il tema della responsabilità penale da prodotto conosce oggi una nuova linea di indagine, rappresentata dalla responsabilità per i danni da produzione e uso di un sistema di IA. Gli aspetti di novità riguardano le caratteristiche del prodotto, che è “intelligente” in quanto in grado di assumere delle decisioni in un dato contesto. Questa capacità decisionale denota l’agire dell’algoritmo incorporato nel prodotto, il quale tiene quindi un “comportamento”. 

Nel caso di prodotti ‘agenti’, che si muovono nello spazio e assumono decisioni, come fanno i sistemi intelligenti, sarà allora richiesto che il manufatto ‘agisca con diligenza’. Si tratta però di una diligenza non assimilabile a quella umana, poiché “artificiale” e derivante dall’insieme di conoscenze che il sistema di IA ha acquisito nelle fasi di programmazione e addestramento, ovvero dalle informazioni apprese nel corso del suo utilizzo. 

Laddove la decisione algoritmica sia però frutto di un errore verificatosi durante il processo decisionale, si assisterà a una forma di ‘negligenza artificiale’ che ci induce a interrogarci sul riparto di responsabilità tra produttore e utente, scartando l’idea dell’algoritmo come autonomo centro di imputazione giuridica e quindi soggetto responsabile. Bisogna allora capire quando la negligenza artificiale cela una negligenza umana e in quali casi quest’ultima sia riferibile al produttore ovvero all’utente. 


Laura D’Amico – Università di Messina

Self driving cars e responsabilità penale: una nuova frontiera (?)”


Le auto a guida autonoma sono ormai una realtà a livello globale. La loro presenza sulle nostre strade porta con sé una serie di interrogativi. Ci si chiede quale sarà la percezione sociale del fenomeno, quali saranno i risvolti etici ad esso connessi, se e come si declinerà l’evoluzione della normativa in materia di circolazione stradale e, da ultimo, come reagirà il diritto penale davanti a un incidente causato da un’auto a guida autonoma.

Nel solco tipico della società del rischio, occorrerà muoversi nell’ottica del bilanciamento di interessi, contemperando benefici e rischi delle self driving cars. Per contro, occorrerà contenere il pericolo di un eccessivo (e preclusivo) ricorso al principio di precauzione da un lato, delimitando con ponderazione l’area del rischio consentito dall’altro. 

Partendo dai diversi gradi di automazione della guida, si tenterà di comprendere se e in che misura i tradizionali metodi di imputazione penale possano essere adoperati per individuare il responsabile di un evento lesivo occorso. Mentre essi possono ancora rivelarsi adeguati con riguardo a livelli di automazione minima - che cioè richiedano ancora il monitoraggio e l’intervento del conducente - il discorso muta quando quest’ultimo arriva ad assumere il ruolo di mero supervisore del veicolo, se non, addirittura, quello di passeggero. Sorgono spontanei altri due interrogativi: tale ruolo di “conducente eventuale” varrebbe ad attribuire all’uomo dietro il volante una posizione di garanzia in termini di controllo di una fonte di pericolo? Ancora, se con l’avanzare del livello di autonomia della macchina il danno cagionato non fosse in alcun modo riconducibile all’uomo, ci troveremmo davanti a un’ipotesi di responsibility gap

La progressiva automazione del veicolo è destinata a spostare l’attenzione dal suo conducente al suo produttore, chiamando in causa non solo una possibile diversa perimetrazione delle regole cautelari in capo a questi ultimi, ma anche le problematiche tipiche della responsabilità per danno da prodotto. 

La questione, in altre parole, concerne l’allocazione della responsabilità, sia nel caso delle auto semi-autonome, sia nel caso delle auto autonome. Occorre però rifuggire da due eccessi diametralmente opposti: da un lato, quello di attribuire automaticamente la responsabilità dell’evento lesivo al conducente o al produttore, facendo ricadere su di essi una sorta di responsabilità per posizione; dall’altro, quello di evitare la creazione di un vuoto di responsabilità che priverebbe di tutela le persone offese dal reato materialmente commesso da (o mediante) un veicolo, più o meno autonomo.

Spetta al diritto (anche penale) rivestire un ruolo chiave in questo scenario, per far sì che quest’ultimo non segua lentamente l’incedere dell’evoluzione scientifica ma cammini al suo fianco. Non iniziare a riflettere su questi temi sarebbe antistorico: l’evoluzione arriva comunque, e noi non possiamo farci trovare impreparati.


Stefan Schwitzer – Università di Innsbruck

Guida automatica e responsabilità penale: un primo inquadramento comparato 


La costante evoluzione tecnologica, anche e soprattutto in ambito digitale-informatico, interessa i più vari settori della vita quotidiana. Uno di questi è senz’altro la mobilità, e in particolare lo sviluppo della guida automatica. Negli ultimi anni sempre più entrata nell’interesse del pubblico, essa costituisce uno degli obiettivi centrali dell’industria automobilistica e delle imprese digitali. Tale interesse si spiega con gli effetti positivi (come per es. la riduzione del numero degli incidenti stradali con conseguente aumento della sicurezza nella circolazione stradale) che si auspica possano essere raggiunti con questa tecnologia. In luce della sua possibile prossima introduzione, è necessario analizzare l’impatto che essa avrà sull’ordinamento giuridico e, in particolare, sul diritto penale. La presentazione si apre con una breve descrizione del funzionamento della tecnologia in questione, categorizzando tra l’altro i vari sistemi di guida per grado di automazione. Segue una descrizione della normativa vigente in Italia e una sua comparazione con l’ordinamento giuridico tedesco, che ha già conosciuto varie modifiche in relazione alla tecnologia in questione. In tal luce vengono analizzate selezionate questioni di carattere giuspenalistico che la guida automatica solleva. Accanto a possibili casi di responsabilità penale riguardanti l’introduzione abusiva nel sistema di guida, per es. al fine di sottrarre dei dati o per apportare modifiche al sistema stesso, centrale rimane il caso dell’incidente stradale causato da un veicolo operato da un sistema di guida automatica, nell’ambito del quale una o più persone vengano ferite o uccise. Nell’accertare i profili di responsabilità penale per il fatto occorso, numerose sono le problematiche che si presentano sia sul piano dell’elemento oggettivo, che su quello soggettivo. Fondamentale è, a tal riguardo, tenere anche sempre in debita considerazione il livello di automazione di cui il veicolo, in concreto, è dotato. Casi del genere, inoltre, potrebbero presentare appassionanti questioni di carattere giusfilosofico; ove, infatti, non solo l’incidente, ma anche la lesione o la morte di una persona fossero inevitabili, come potrebbe, anzi dovrebbe essere programmato il sistema di guida? A quale bene e soggetto dovrà dare priorità? Senza poter chiaramente fornire una risposta onnicomprensiva a tali questioni, la presentazione intende inquadrare le principali problematiche e offrire utili spunti per la loro discussione. 


Marco Mattia – Università di Verona

Le ultime frontiere della Cyber-devianza tra nuovi settarismi digitali, manipolazioni psichiche di massa e diffusione telematica di fake news. Profili di riflessione dogmatica e politico-criminale.


All’ampio novero delle molteplici questioni penalistiche implicate dall’attuale stadio di avanzamento tecnologico della moderna società del rischio si è recentemente aggiunto il problema dell’emersione – all’interno delle opache intercapedini virtuali del Cyber-Space – di nuove fenomenologie settarie di carattere smaterializzato e pulviscolare, le cui modalità operative appaiono non meno pervasive e pericolose di quelle che nei decenni scorsi caratterizzarono i c.d. “NMR” (Nuovi Movimenti Religiosi).

Invero, tale ennesimo caso di riconversione tecnologica di forme di devianza già note in passato suscita interrogativi giuridico-penali di non poco momento, specialmente con riguardo alle nuove esigenze di tutela dei beni giuridici costituzionalmente rilevanti suscettibili di essere posti in pericolo dalle condotte di abusivo sfruttamento - ad opera dei leaders carismatici di tali nuovi “culti virtuali” ed a fini di proselitismo, indottrinamento e manipolazione psicologica degli affiliati - delle enormi potenzialità comunicative oggi dischiuse dalla diffusione ubiquitaria dei social network e degli altri mezzi di comunicazione digitale collegati all’utilizzo di Internet.

L’intervento, in particolare, si soffermerà sui profili di possibile rilevanza penale (soprattutto in prospettiva de iure condendo) delle pratiche di condizionamento psichico di massa attuate da tali nuovi movimenti carismatici tramite la diffusione dolosa di fake news su temi sensibili come la salute pubblica (si pensi all’attualissimo caso dei no-vax), riprendendo così le fila del dibattito sui limiti penalistici alla libertà di manifestazione del pensiero (e del “dissenso”) all’interno della moderna agorà digitale, luogo immateriale in cui la comunicazione interpersonale risulta peraltro sempre più meccanizzata e spersonalizzata a causa del costante lavorio di profilazione dei dati e filtraggio algoritmico delle informazioni considerate più idonee a rinsaldare i bias cognitivi degli utenti.

Esaurita la riflessione di carattere politico-criminale sull’opportunità o meno di introdurre nuove fattispecie penali a presidio dell’interesse alla trasparenza e alla veridicità delle informazioni circolanti in rete, nelle conclusioni si tenterà di tratteggiare alcuni rilievi sistematici sulla vexata quaestio della rilevanza dogmatica ed ermeneutica degli elementi psico-emozionali all’interno della complessiva intelaiatura del sistema penale contemporaneo, questione che torna di stringente attualità in un’epoca – come quella attuale – in cui il diffondersi di sempre più sofisticate tecniche di manipolazione digitale del consenso non può che rinnovare l’interesse scientifico del penalista verso gli aspetti più problematicamente collegati alla dimensione “irrazionale” dell’esperienza giuridica, in una costante tensione culturale e metodologica verso il raggiungimento di un soddisfacente punto di equilibrio epistemico tra sapere giuridico e sapere extra-giuridico.



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