Abstract delle relazioni della decima edizione

LUNEDÌ 1 LUGLIO, ORE 14.30-18.30


Prevedibilità delle decisioni e discrezionalità del giudice penale

coordinano Mario Caterini, Ciro Grandi e Michele Papa


Jacopo Della Valentina – Università di Ferrara

Conflitti triadici tra norme di diritto interno e diritto Ue e tacite violazioni del principio di prevedibilità


Quali gli itinerari del principio di prevedibilità? Quali le scaturigini di una sua eventuale violazione?  Una recente vicenda, nata all’esito della contestazione del reato di occupazione abusiva del demanio marittimo (art. 1161 c.nav.), mostra come – nonostante l’indubbia ascendenza ‘convenzionale’ del principio, oggi ancora in lenta fase di recezione nell’ordinamento nazionale – ‘problemi di prevedibilità’ si manifestano non soltanto in occasione di contrasti o, ancor più, di improvvisi mutamenti giurisprudenziali peggiorativi. A ben vedere, le violazioni del principio di prevedibilità possono originare altresì dalle complesse interazioni tra diritto interno e diritto Ue, in particolare all’esito del noto fenomeno della disapplicazione in malam partem. Il caso delle concessioni demaniali, esaminato alla luce del conflitto tra il sistema nazionale di proroghe automatiche delle concessioni balneari e i principii statuiti dalla c.d. Direttiva Bolkestein, non costituisce un unicum del fenomeno ‘disapplicativo’ promanante da quello che, in dottrina, è stato definito un “conflitto triadico tra norme”. Al contrario, la vicenda dei ‘bagni Liggia’ trova numerosi precedenti, anche ‘illustri’: dal caso Berlusconi ai casi Tombesi e Niselli (relativi, questi ultimi, alla nozione di ‘rifiuti’ nell’ordinamento italiano), dal caso Trinca (conosciuto come il ‘caso dei pesci in malam partem’) fino, come evidente, alla ‘saga’ Taricco. Orbene, dette vicende meritano di essere esaminate dal punto di osservazione del principio di prevedibilità, sul versante eurounitario certamente meno esplorato rispetto al versante ‘convenzionale’. Si vedrà come, nelle pieghe dei rapporti tra diritto Ue e diritto interno, si annidino violazioni del summenzionato principio, se possibile, più striscianti di quelle originate dai c.d. mutamenti peggiorativi di giurisprudenza. Le quali, tuttavia, allo stato attuale sembrano trovare tutela ancor minore, risolvendosi in taciti aggiramenti della legalità penale.


Marzia Gaia Marzano Università di Foggia

Verso l'impiego dell'intelligenza artificiale quale ausilio alla decisione penale?


L’intelligenza artificiale (IA) ci aiuta a compiere la maggior parte delle attività quotidiane ed il fenomeno sarà presto destinato a permeare anche il mondo giuridico.

Lo sviluppo tecnologico, unitamente alla crisi in cui da tempo versa il principio di legalità in materia penale e alla necessità di implementare l’efficienza del sistema giustizia in modo da raggiungere gli obiettivi di questo e dei futuri PNRR con enorme risparmio di costi, costringe il giurista a sottoporre a vaglio critico alcune credenze che si sono stabilizzate nel tempo e a riflettere – in modo più concreto di quanto avvenuto fino ad ora – sulla possibilità di addivenire ad una parziale automazione dell’attività giurisdizionale (anche in materia penale).

La transizione digitale della giustizia penale iniziata con la riforma Cartabia (nello specifico: la parziale “despazializzazione” del processo penale, nonché la traduzione e la redazione in formato digitale degli atti del procedimento penale), insieme all’attenzione riservata sia a livello nazionale sia a livello locale all’implementazione delle banche dati esistenti e alla creazione di raccolte della giurisprudenza di merito, rende sempre più probabile il ricorso alla c.d. “giustizia predittiva”. Ciò anche alla luce dei notevoli passi avanti compiuti dall’IA nell’ambito del linguaggio che permettono già oggi ai software di essere potenzialmente in grado di garantire nel campo della motivazione performance superiori a quelle umane.

Anticipando fin da ora che l’approccio al tema è influenzato dalle posizioni cui si aderisce in materia di interpretazione del diritto, il presente intervento si propone di analizzare i vantaggi ed i rischi connessi all’impiego dell’IA quale ausilio alla decisione penale allo scopo di verificare se sia davvero auspicabile l’avvento di una giustizia penale parzialmente automatizzata.


Margherita Pizzoferrato – Università di Torino

Discrezionalità del giudice penale e condotte riparative


Il potere discrezionale del giudice in sede di commisurazione della pena è da tempo all’attenzione della dottrina e del legislatore. La riflessione ha investito non tanto i criteri di esercizio di tale potere negli spazi infra-edittali della pena, quanto lo spazio più ampio che assicura al giudice la possibilità di modificare quantitativamente o qualitativamente la pena oltre i limiti edittali. Il legislatore è intervenuto con scelte che hanno, da un lato, ridotto il potere discrezionale del giudice, con decisioni non sempre ragionevoli che hanno dato luogo anche a diversi interventi della Corte costituzionale, dall’altro hanno introdotto meccanismi che possono essere più ampiamente ricondotti alla “non punibilità” in concreto (non punibilità per particolare tenuità del fatto, messa alla prova) o alla deflazione rispetto alla pena detentiva (sospensione condizionale della pena, riforma Cartabia sulle pene sostitutive).

In questo contesto, il potere discrezionale del giudice è stato interessato dalla rilevanza che il legislatore ha dato alle condotte riparative, sia più tradizionalmente restitutive, sia derivanti da un percorso di giustizia riparativa. In particolare, ci si domanda quanta libertà residui al giudice circa la loro identificazione, quanto impatto queste abbiano sulla decisione giudiziaria e quanto il giudice possa essere indirizzato, più o meno consapevolmente, verso soluzioni differenti a seconda che il soggetto abbia posto in essere tali condotte oppure se ne sia astenuto.



Il principio di proporzionalità della pena nella recente giurisprudenza costituzionale

coordinano Roberto Bartoli, Angela Della Bella e Carlo Sotis


Diego Salvatore Università Federico II (Dottorato in Diritto dell'Economia)

La ragionevolezza delle cornici edittali al vaglio della Corte Costituzionale: il caso dei delitti contro il patrimonio


Il particolare rigorismo sanzionatorio che presidia le fattispecie che tutelano il patrimonio era giustificato, nell’ottica del Legislatore del 1930, dalla centralità del diritto di proprietà. Negli ultimi decenni, il progressivo innalzamento delle pene e l’ampliamento del ventaglio degli strumenti di contrasto a questa particolare forma di criminalità (si pensi all’introduzione di circostanze privilegiate o alla sottrazione alla sospensione delle pene detentive brevi) risultano emblematici di una perdurante attenzione del Legislatore verso la materia. La Corte Costituzionale ha assunto, almeno fino al recente passato, un atteggiamento di sostanziale inerzia rispetto alla problematica poc’anzi segnalata, almeno a partire dalla sentenza n. 22/1971 (relativa allo squilibrio della cornice edittale prevista per il furto). Un primo cambio di rotta è stato registrato con la sentenza 68/2012. La Consulta ha “ritagliato” una circostanza attenuante basata sulla lieve entità del fatto per il sequestro di persona a scopo estorsivo (art. 630 cod. pen.), ritenendo manifestamente irragionevole la disparità rispetto al sequestro con finalità terroristica o eversiva (art. 289-bis cod. pen.), cui può applicar si una diminuzione di pena (art. 311 cod. pen.) prevista per tutti i delitti inseriti nel Titolo primo. Si inserisce in questo filone anche la sentenza n. 190/2020: pur rigettando la questione di legittimità (concernente l’equiparazione tra le ipotesi di rapina “propria” ed “impropria”), la Corte ha sostanzialmente invitato il Legislatore a riflettere sulla «pressione punitiva attualmente esercitata riguardo ai delitti contro il patrimonio […] diventata estremamente rilevante». Non devono sorprendere, allora, decisioni come la n. 120/2023, con la quale la Consulta, di fatto, ha esteso il dictum della sentenza n. 68/2012 all’estorsione, e la n.  46/2024, con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo il minimo edittale previsto per il delitto di appropriazione indebita, innalzato ad anni due dalla L. n. 3/2019 (ripristinando la cornice edittale ante riforma, con applicazione dell’art. 23 cod. pen. quanto alla misura minima della sanzione).


Federico Valente Bagattini Università di Firenze

Il giudizio sulla proporzione della pena nella recente giurisprudenza costituzionale


La relazione ha ad oggetto la giurisprudenza costituzionale in materia di proporzione della pena. Dopo averne offerto una panoramica generale in prospettiva storico-evolutiva, il contributo si concentra sulle pronunce degli ultimissimi anni. In particolare, verranno analizzati nel dettaglio due distinti ma collegati profili. Da una parte, il giudizio di sproporzione (c.d. pars destruens), dall’altra, le modalità attraverso cui la Corte individua il trattamento sanzionatorio da sostituire a quello dichiarato illegittimo (c.d. pars costruens). Rispetto al primo profilo, l’impressione è che la Corte rinnovi continuamente i propri schemi di giudizio e che la valutazione di sproporzione intrinseca venga sempre affiancata e “rafforzata” anche da un’altra valutazione di tipo analogico-comparativo. Sull’altro versante, invece, relativo alla gestione dell’esito della pronuncia di incostituzionalità, la Corte sembra faccia ormai costantemente ricorso allo schema delle cc.dd. “rime adeguate”, individuando in maniera discrezionale ma mai arbitraria il nuovo trattamento sanzionatorio.

MARTEDÌ 2 LUGLIO, ORE 9.00-13.00


I limiti del diritto penale tra sussidiarietà, bilanciamento ed opportunità

coordinano Stefano Canestrari, Donato Castronuovo e Daniele Piva


Roberto D'Andrea Scuola Superiore Sant’Anna

Dal dovere di vivere al diritto alla vita


La relazione mira a rileggere il fine vita attraverso la lente dell’inesorabile percorso dell’ordinamento dal dovere di vivere al diritto alla vita. Dietro la retorica della sacralità della vita, infatti, si cela l’antico, e sinora mai fino in fondo superato, dovere giuridico di vivere, con il correlato divieto giuridico di morire.

Queste ultime figure non costituiscono il frutto di una visione confessionale: la dottrina cattolica romana ha soltanto esasperato, ma non inventato, l’intangibilità della vita umana, in quanto ogni ordinamento – così come ogni essere vivente – tende ad auto-preservarsi, e di conseguenza a preservare coattivamente anche gli individui che lo compongono.

Dalla frizione assiologica fra l’atavica pretesa organicistica dell’ordinamento a preservarsi attraverso i propri consociati (da cui è geminato il dovere di vivere) ed il personalismo costituzionale che erge ciascun singolo essere umano ad alfa ed omega del sistema giuridico (da cui vuol nascere il diritto alla vita) discendono tutti i principali problemi che la materia del fine vita solleva. La presente relazione si propone dunque di affrontarli mettendo in luce le contraddizioni in cui incorre qualunque ricostruzione comunque tesa a tutelare il diritto alla vita ponendolo in contrasto con il fondamentale nucleo di libertà che ne permea l’essenza. Il primo – e scientificamente più importante – momento della relazione ha così carattere prevalentemente decostruttivo.

Si indicherà da ultimo – e molto sinteticamente – una possibile via per costruire sulle macerie generate dalla fase demolitoria un più saldo edificio, auspicabilmente non solo connotato da una migliore funzionalità, ma anche sorretto su basi teoriche più salde e attuali: l’edificio – appunto – legato al diritto alla vita ed alla sua ineludibile componente negativa. Il secondo momento della relazione ha quindi carattere prevalentemente ricostruttivo.


Christoph Thun Università di Trento

Illiceità speciale ed extrema ratio


La relazione si propone di analizzare i rapporti fra il principio di ultima ratio e l’illiceità speciale. Evidenziato come le fattispecie ad illiceità speciale abbiano il potenziale sia di assicurare il rispetto del principio di sussidiarietà, sia di comprimerlo “indebitamente”, si tenterà di enucleare quali accorgimenti possano assicurare un rapporto virtuoso fra i due termini della relazione.

Si analizzeranno pertanto i rischi per il principio di sussidiarietà che portano con sé, da un lato, le formulazioni di disposizioni incriminatrici che concentrano tutto il disvalore sulla violazione del parametro extrapenale di riferimento nonché, dall’altro lato, le interpretazioni che banalizzano la portata dei requisiti d’illiceità speciale.

Si concluderà quindi esponendo in che modo l’impiego, da parte del legislatore e degli interpreti, del sofisticato strumento dell’illiceità speciale, possa risultare compatibile con il principio di extrema ratio, sostenendo che sia sempre necessario costruire attorno al “cuore” di una valutazione d’illiceità espressa da altri rami dell’ordinamento – che, da soli, non si sono rivelati sufficienti a contrastare un determinato fenomeno criminoso –, un “corpo” (e.g. presupposti, qualifica soggettiva, disvalore d’evento, et c.) che giustifica il salto sanzionatorio.


Morena Gallo Università della Calabria

La poena naturalis: utilità e opportunità di punire l’autore di reato anch’egli ‘vittima’ dello stesso


Il fatto che una persona provochi un danno a sé stesso o a un suo familiare a causa o in ragione o in concomitanza del reato da lui commesso, può influire sulla necessità, opportunità o quantificazione della pena? Il riferimento è a quei casi tradizionalmente chiamati di poena naturalis che interessano anche molti fatti di cronaca, che offrono interessanti spunti per un dibattito che coinvolge la teoria generale del reato e della pena.

Istituti costruiti sul concetto di ‘pena naturale’ esistono in altri ordinamenti europei: i casi più noti sono forse quelli del sistema penale tedesco1, svedese2 e austriaco3, in cui la ‘pena naturale’ viene talvolta considerata causa di non punibilità, altre alla stregua di un’attenuante o motivo di non luogo a procedere. Analoghe previsioni si possono rintracciare negli ordinamenti di molti Paesi latinoamericani, quali l’Argentina4, Cuba5, Perù6, Colombia7, Ecuador8.

Il diritto penale italiano non contempla, per tutti quei casi che possono essere annoverati come poena naturalis, specifici meccanismi giuridici per rinunciare alla pena o per attenuarla. Traendo spunto dalla comparazione, allora, s’intende valutare de lege ferenda quale potrebbe essere il valore giuridico da attribuire alla pena naturale in Italia. Tale riflessione si rende necessaria soprattutto a seguito della sentenza della Corte costituzionale che si è espressa sull’ordinanza del Tribunale di Firenze con cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 c.p.p., nella parte in cui, per i casi di c.d. penale naturale nei reati colposi, non prevede la possibilità di una sentenza di non doversi procedere.

La richiamata declaratoria d’inammissibilità pronunciata dalla Corte costituzionale in tema di pena naturale sembra una decisione che alla base ha valide ragioni. La stessa decisione, del resto, non pregiudica una futura riproposizione di una questione di legittimità avente a oggetto sempre la pena naturale, ovviamente fondata su altre motivazioni e concepita in maniera più adeguata a una possibile pronuncia di accoglimento. Questo, in primis, perché la disposizione scelta dal Tribunale di Firenze – l’art. 529 c.p.p. – per sollevare la questione di legittimità costituzionale, e quindi dare rilievo nell’ordinamento italiano alla poena naturalis, non sembra quella più adatta: si tratta, infatti, di una norma processuale in tema d’improcedibilità, mentre forse l’ingresso della ‘pena naturale’ nel sistema italiano dovrebbe essere affidata a una disposizione di diritto sostanziale. L’intervento vuole proporre idee da sviluppare in prospettiva de lege ferenda, volte a valorizzare i casi di pena naturale attraverso delle presunzioni, assolute o semplici, a seconda delle regole d’esperienza che corroborano più o meno intensamente la sofferenza patita dall’autore del fatto.


1 Strafgesetzbuch (StGB) § 60 Absehen von Strafe. 2 Codice criminale svedese, Cap. 29, Sez. 5 e 6. 3 StGB §34, co. 1, n. 19. 4 Codigo Procesal Penal Nacional, art. 31. 5 Ley del Proceso penal 143/2022, artt. 16.2, 17.1, e 3 b), 18.1. 6 Codigo Procesal Penal, Libro Primero, art. 2. 7 Ley 906/2004, artt. 323 e 324. 8 Codigo Organico Integral Penal, art. 372.


Marco Berruti Università di Genova

La repressione della colpa nella società del rischio


Se nel valutare l’entità di un comportamento illecito si dovesse unicamente avere riguardo ai relativi effetti materiali, allora sul piano sanzionatorio non ci sarebbe alcuna differenza tra un fatto doloso e il corrispondente fatto colposo: l’uccisione di un uomo, l’incendio di un bosco o il deragliamento di un treno dovrebbero essere puniti allo stesso modo, a prescindere che il responsabile abbia agito dolosamente o per mera trascuratezza. Senonché, il graduale riconoscimento del principio di colpevolezza e la conseguente necessità di parametrare la risposta penale alla rimproverabilità dell’agente portano a respingere con fermezza tale soluzione, a cui si deve replicare optando per una mite, nonché residuale, repressione dei reati colposi.

Eppure, a ben guardare, gli attuali modelli sanzionatori, uniti a talune tendenze giurisprudenziali, rivelano una sostanziale svalutazione dell’elemento soggettivo, tanto esaltato in astratto, quanto esautorato in concreto. Si allude anzitutto alle numerose (e variegate) ipotesi contravvenzionali che costellano il nostro sistema penale, rispetto alle quali il reale accertamento del nesso psichico scivola spesso in valutazioni meramente presuntive, contribuendo alla spersonalizzazione e oggettivizzazione del rimprovero, soprattutto colposo.

Alla luce di ciò e tenuto conto che le caratteristiche intrinseche della società contemporanea hanno trasformato l’imputazione colposa da semplice comparsa a vera e propria protagonista del diritto penale, la relazione intende approfondire il tema della repressione della colpa nella società del rischio, dedicando particolare attenzione alle odierne tecniche punitive (attuate o attuabili) e alla loro compatibilità coi principî di colpevolezza, offensività e sussidiarietà.



Il diritto penale d'autore

coordinano Gabriele Fornasari, Annamaria Peccioli e Lorenzo Picotti


Piero Brunetti, Università Federico II (Dottorato in Diritti umani. Teoria, storia e prassi)

Il diritto penale d'autore tra teoria e prassi


La relazione intende illustrare sinteticamente il riemergere del diritto penale d’autore. Dopo aver dato conto delle ragioni di una ricerca sul tema, si propone di trattare delle tipologie di diritto penale d’autore, accennando criticamente a fattispecie incriminatrici che, nell’ordinamento vigente, sembrano rievocare tali paradigmi. Quindi, punta a offrire una disamina della giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, al fine di rappresentare il sempre più frequente affiorare della categoria.


Laura Ricci Università di Pisa

Diritto punitivo coloniale. Costanti e criptotipi nella gestione penale dell’alterità


Lo studio delle esperienze giuridiche coloniali tardo-ottocentesche sollecita riflessioni di più ampio respiro sull'atteggiarsi del potere punitivo in "contesti di confine", sia in senso geografico che politico-sociologico, caratterizzati dall’incontro/scontro con alcune figure dell’alterità. L’analisi delle pratiche punitive coloniali - esplicitamente (e poi, successivamente, nel caso italiano, istituzionalmente) concepite (anche per precise premesse ideologiche e, all'epoca, 'scientifiche’) in termini razzisti e differenziali, e chiaramente orientate a logiche di assoggettamento e di dominio - consente invero di trarre indicatori univoci di diritto penale differenzialista, utili a segnalare, se esportati in altri ambienti ed epoche, un approccio in certa misura storicamente ricorsivo. Con le dovute cautele, e tenendo conto dei profili di contesto storico-sociale e normativo che, invece, impongono attente distinzioni o possono determinare "false assonanze", si ritiene dunque interessante sperimentare questi indicatori per testare il livello di "differenzialismo" negli approcci normativi e giurisprudenziali contemporanei, con riferimento precipuo ai settori, da un lato, del diritto punitivo dell'immigrazione, dall’altro dei reati a (effettiva o presunta) matrice culturale, anche allo scopo di evidenziare eventuali frizioni con principi costituzionali e convenzionali.


Caterina Lucia Capra Università di Pavia

Pedopornografia e diritto penale


La pedopornografia costituisce un dilemma sul piano politico criminale. La legittimità della sua incriminazione – secondo un’interpretazione dell’harm principle in chiave limitativa dell’intervento penale – si lega alla sua effettiva dannosità, la quale tuttavia può essere declinata secondo due differenti impostazioni. L’harm può essere considerato, infatti, strettamente individuale, e pertanto sovrapposto alla lesione della personalità (interna o esterna) del minore, oppure collettivo diffuso: se nel primo caso si profila il tema della necessaria espunzione dall’area del penalmente rilevante del materiale prodotto senza utilizzazione del minore o nell’ambito del fenomeno della c.d. pedopornografia domestica (come affermato dalle pronunce S.U. 51815/2018 e S.U. 4616/2022), nella seconda ipotesi si ritiene invece che la produzione di materiale pedopornografico, e tanto più la sua diffusione, “normalizzi” condotte che è l’ordinamento penale stesso (almeno in una certa misura) a reprimere, aumentando d’altronde il rischio di commissione di reati sessuali contro minori. L’intervento, dopo una breve ricostruzione di questi approdi e qualche considerazione circa l’esiguità delle prove empiriche a sostegno della lesività sociale della pedopornografia, si concentra sulla tensione tra la pur condivisibile aspirazione alla tutela del minore e il rispetto dei principi fondamentali di un diritto penale di stampo liberale, e da ultimo sulle criticità dell’attuale assetto normativo, in particolare il recentemente novellato art. 600 quater e l’art. 600 quater.1 c.p., dietro i quali si celano un’impostazione moralistica e un ritorno al paradigma del “diritto penale del nemico”.


MARTEDÌ 2 LUGLIO, ORE 14.30-18.30

 

Il volto attuale del principio di personalità della responsabilità penale

coordinano Luigi Cornacchia, Giuseppe Losappio e Vittorio Manes 


Costantina Caravatta Università degli Studi di Roma Tor Vergata

La mutevole fisionomia della posizione di garanzia


Il requisito normativo della necessaria rilevanza giuridica dell’obbligo di impedire l’evento, in assenza di altri filtri selettivi, ha conferito una certa duttilità all’art. 40 cpv, investendo dottrina e giurisprudenza del difficile compito di individuare la fonte e il contenuto dell’obbligo impeditivo la cui violazione fa sorgere una responsabilità penale omissiva.

A tal proposito è possibile rilevare la tendenza ad obliterare quell’intrinseca eccezionalità che dovrebbe connotare gli spazi dell’omissione punibile, risolvendo la costante tensione con le istanze solidaristiche proprie di uno Stato sociale di diritto a favore di una notevole dilazione del margine applicativo della clausola di equivalenza causale.

Da qui il carattere proteiforme assunto nel diritto vivente dalla posizione di garanzia e la frequente flessibilizzazione del suo raggio applicativo in base alle esigenze di tutela che si intendono soddisfare. La presente relazione mira ad indagare in questa prospettiva l’incidenza del contesto di riferimento,

nonché il grado di asimmetria tra la fonte giuridica del dovere impeditivo e i correlati poteri. Se da un lato, infatti, la mancata perimetrazione normativa dei poteri impeditivi ne favorisce una ricostruzione in termini fattuali, come accade emblematicamente in ambito familiare; dall’altro, non sempre – nella prassi giurisprudenziale – la descrizione, più o meno articolata, di una pluralità di poteri aiuta a selezionare in modo corretto quelli effettivamente dotati di una efficacia impeditiva in senso stretto, come si registra in tema di responsabilità medica, ma anche in materia di sicurezza sul lavoro. Di particolare interesse, poi, a fini dimostrativi è il contesto della Protezione Civile in cui il garante si fa gestore di un rischio complesso e multifattoriale, peraltro all’interno di un sistema policentrico e diffuso di competenze.

Dunque, preso atto della difficoltà di individuare un tratto realmente identitario dell’istituto, va considerata la plausibilità di un approccio differenziato che, tenendo conto delle peculiarità delle singole posizioni di garanzia, ne delinei uno statuto interpretativo in grado di assicurare maggiore stabilità in sede applicativa.


Federica Zazzaro Università della Campania Luigi Vanvitelli

La delega di funzioni e il discrimen con la delega gestoria


L’intervento mira ad analizzare i profili di responsabilità penale di tipo omissivo, configurabili in capo ai soggetti con funzioni di vigilanza e controllo, in caso di omesso impedimento dei reati altrui.

Tale forma di responsabilità, nell’ambito del diritto penale dell’impresa, presenta numerose criticità, che derivano soprattutto da fattori strutturali interni alle organizzazioni complesse. In effetti, la ripartizione dei compiti e la frammentazione dei processi decisionali ed esecutivi tipici dell’organizzazione d’impresa rendono particolarmente gravoso il processo di individuazione delle posizioni di garanzia aziendali ed incidono, altresì, sull’attribuzione delle singole responsabilità penali.

In tale contesto, ad accrescere le difficoltà accertative è l’istituto della delega di funzioni, prevista all’art. 16 del d.lgs. n. 81/2008, che consiste nel trasferimento di funzioni da parte di un soggetto formalmente titolare di un obbligo giuridico ad un altro soggetto privo dei requisiti normativi.

Quest’ultima, da un lato, rappresenta un pilastro fondamentale nell’intelaiatura gerarchica dell’organizzazione aziendale, dall’altro lato, riveste un ruolo centrale nell’identificazione dei soggetti garanti, incidendo sulla ripartizione delle competenze interne e mutando il contenuto del dovere di vigilanza.

In questa sede, dopo aver esaminato la delega di funzioni, si coglie l’occasione per affrontare il tema della distinzione tra tale istituto e quello della delega gestoria. Quest’ultima, il cui fondamento risiede nell’art. 2381 c.c., è volta a garantire l’efficienza dell’esercizio della funzione gestoria all’interno delle organizzazioni complesse, dando la possibilità all’organo amministrativo di delegare le proprie attribuzioni ad uno o più dei suoi componenti o ad un comitato esecutivo.

Sul punto, in giurisprudenza si è avuta una prima interpretazione che sovrapponeva le due figure, portando con sé notevoli conseguenze sul piano di attribuzione della responsabilità penale dei soggetti coinvolti. I profili problematici derivanti da tale confusione, infatti, concernono non solo la determinazione dei poteri del delegato – in termini di ampiezza e contenuto – ma, altresì, le modalità di adempimento del dovere di vigilanza residuale in capo al dante incarico, nonché i profili di responsabilità omissiva di quest’ultimo per la condotta criminosa del delegato. Il tema, peraltro, è stato oggetto di una pronuncia della Sezione quarta della Corte di Cassazione, n. 8476 del 27 febbraio 2023, riguardante un caso di infortunio sul luogo di lavoro, con la quale la Corte ha tratteggiato i profili distintivi dei due istituti, sia dal punto di vista dei requisiti di validità sia dal punto di vista dei poteri di vigilanza e delle responsabilità residuali in capo al soggetto dante incarico.


Paolo Beccari Università di Bologna

La responsabilità delle piattaforme per i contenuti degli utenti nell'era della “post-democrazia”


Dalla fine del Secolo scorso, l’avvento del Web ha rappresentato non solo il centro di una rivoluzione tecnologica, ma anche socioculturale, affiancando e progressivamente sostituendo ai tradizionali spazi di svolgimento delle relazioni interpersonali un inedito spazio virtuale. Pur assicurando agli individui di godere delle proprie libertà in un contesto avulso dalla realtà, tale spazio si è tuttavia rivelato, al contempo, una seria minaccia per i suoi utenti, divenendo la culla per una nuova stagione di reati nell’ambito delle più moderne tecnologie. A poco è valsa, fino ad oggi, la presenza di soggetti giuridici noti come Internet Service Providers, il cui ruolo, pedissequamente e svolto all’insegna di un’irresponsabilità consacrata per legge (a partire dal Communications Decency Act del 1996 negli USA e dalla Direttiva c.d. E-commerce del 2000 in UE) ha ulteriormente consentito la degenerazione dello scenario virtuale, esponendo le libertà fondamentali di ogni suo attore alla logica dello “homo homini lupus”, suscettibile di esporre beni di altissimo rango, come la libertà sessuale e la dignità umana, a offesa o pericolo. Spesso, infatti, la notevole inerzia dei gestori delle piattaforme digitali nella gestione di contenuti ha consentito la protrazione di condotte illecite e penalmente rilevanti, la cui offensività è stata accresciuta proprio dal loro perdurare online. In breve, nell’arco di quasi un decennio, si è passati da un’epoca di “post-truth” (di “verità secondaria” o “verità in secondo piano”), dove ad essere minacciati sono i contenuti e la qualità del dibattito e le posizioni individuali, a un’età di “post-democracy”, nella quale la disintermediazione online e i fenomeni criminosi raggiungono il loro culmine, insidiando interi ordinamenti con notevole impatto sui loro meccanismi elettorali. Di fronte a un contesto sempre più destrutturato, si è oggi in una nuova stagione di regolamentazioni, nel tentativo ambizioso di dare risposta alla questione della responsabilità delle piattaforme per contenuti degli utenti, proprio a partire dagli effetti che questi ultimi producono. Se il dibattito italiano, da tempo rivolto al tema della natura di una simile responsabilità, sembra essersi sopito, non altrettanto può dirsi per altri ordinamenti, come Germania, Francia e Regno Unito, che hanno recentemente prodotto soluzioni tanto innovative quanto critiche nella difficoltà di bilanciare meccanismi di compliance per uno spazio virtuale più sicuro e libertà di espressione degli utenti. In ultimo, a distanza di un ventennio dalla prima disciplina, è intervenuto anche il legislatore europeo con un notevole “cambio di passo”, introducendo con il c.d. Digital Services Act nuovi obblighi per le piattaforme e notevoli sanzioni (dal vago sapore di obblighi di criminalizzazione e sanzioni penali) per il mancato o tardivo intervento su materiali illeciti online, a fronte però di una nozione assai indeterminata di “contenuto illecito”: aspetti che suscitano – anche in riferimento all’ordinamento italiano, dove la nuova disciplina troverà diretta applicazione – numerosi interrogativi sul ruolo del diritto penale, anche nel rapporto con strumenti preventivi di trasparenza ed educazione digitale, per una nuova governance dello spazio virtuale.


Marta Positò Università di Perugia

La partecipazione nelle fattispecie associative antiterrorismo secondo la giurisprudenza italo-francese


Nel solco di un’analisi comparata, si intende dare risalto al fenomeno giurisprudenziale di estensione della portata applicativa delle condotte di mera partecipazione nelle fattispecie di associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico (art. 270-bis c.p.) e di association de malfaiteurs terroriste en vue de la préparation d’un acte de terrorisme (Cod. pén., art. 421-2-1).

Gli interrogativi che si pongono in ordine ai confini della vis estensiva dell’interpretazione giurisprudenziale in materia si accingono non solo a rimettere in discussione la relazione tra i piani di law in books e law in action nel diritto penale antiterrorismo, ma anche le nozioni di pericolo astratto e infraction obstacle. L’attenzione viene così ricondotta alle problematicità generalmente dettate dalla partecipazione al delitto associativo e dalla punibilità degli atti preparatori.

Sulla scorta delle recenti pronunce di legittimità italiane, nonché degli esiti dei processi ‘‘V13’’ (2022), dell’attentato di Nizza (2022), dell’ ‘‘ultragauche’’(2023) e dell’attentato di Trèbes Carcassone (2024), la crescente soggettivizzazione di tali fattispecie incriminatrici si traduce infatti in una sovraesposizione dell’elemento della finalità di terrorismo, pervasivo a tal punto da oscurare tanto la materialità e l’incidenza causale delle condotte considerate, relativamente all’adesione psicologica e ideologica, quanto la programmaticità oggettivamente richiesta in chiave associativa.

Se, da un lato, ciò rischia di inficiare i presupposti della participation criminelle, tra coaction e complicité, e del concorso di persone nel reato, tra concorso eventuale e adesione consapevole, dall’altro, può anche favorire l’emersione di prospettive de iure condendo. In un quadro di inasprimento degli orientamenti di politica criminale di contrasto al terrorismo transnazionale negli ordinamenti studiati, ci si chiede infine se questo sia il risultato della circolazione di nuovi modelli giuridici, a detrimento di tipicità e tassatività delle condotte adesive.



Interferenze e conflitti tra diritto penale ed altri rami dell’ordinamento

coordinano Giovanni Flora, Enrico Mezzetti e Andrea Sereni


Giorgio Ardizzone – Università degli Studi di Roma Unitelma-Sapienza

Il doppio binario tributario alla luce della delega fiscale


Il doppio binario in materia fiscale, nonostante i numerosi sforzi interpretativi volti a tenerlo in vita, sembra essere destinato, se non a una integrale abrogazione, quantomeno a una profonda rivisitazione. L’art. 20, lett. a) della l. 9 agosto 2023, n. 111 impone infatti al Legislatore delegato, nella revisione dell’intero sistema sanzionatorio tributario, di adeguare pienamente l’attuale assetto di tutela al principio del ne bis in idem. La relazione si concentra dunque sui possibili scenari futuri del sistema di enforcement fiscale, dal particolare angolo visuale del coordinamento tra sanzioni penali e amministrative alla luce del principio citato. L’evoluzione interpretativa delle Corti sovranazionali sul punto ha infatti portato, come noto, a non ritenere illegittimo sic et simpliciter ogni sistema a doppio binario anche laddove la sanzione amministrativa abbia natura penale e insista sugli stessi fatti di quella penale. L’accertamento della violazione del principio è infatti subordinato allo svolgimento del test di connessione materiale e temporale introdotto in A e B c. Norvegia, che prevede quale indice di maggiore importanza la proporzionalità complessiva del trattamento sanzionatorio, così contaminando una garanzia di natura meramente processuale, intesa come divieto di doppio giudizio, con profili di diritto sostanziale. La sfida del Legislatore delegato sarà dunque quella di riuscire a prevedere un sistema sanzionatorio efficiente, anche in relazione all’attenzione che si è sempre avuta per la protezione del particolare bene giuridico interessato, senza sacrificare il diritto fondamentale dell’individuo a non subire due procedimenti sostanzialmente penali per lo stesso fatto o, quantomeno, a subire una sanzione integrata sproporzionata, considerata l’inefficienza del meccanismo vigente ad assicurare una simile conclusione.


Carlotta VerucciUniversità Roma Tre

Cautele reali e procedure concorsuali tra (dis)orientamenti giurisprudenziali e interventi normativi (in fieri)


Negli ultimi anni la logica del nullum crimen sine confiscatione ha determinato una proliferazione delle confische (e dei relativi sequestri) con conseguente rischio di reciproche interferenze e possibili sovrapposizioni che, allo stato, non sembrano trovare una adeguata regolamentazione normativa. Analogo problema si è posto in passato rispetto ai rapporti tra le misure cautelari reali e le procedure concorsuali su un medesimo bene (sul punto, si ricordano le due pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, Focarelli e Uniland, che hanno tentato di dirimere i contrasti interpretativi sorti con riguardo all’ordine di prevalenza dei vincoli di cui sopra). Di recente, il legislatore è intervenuto per colmare il vuoto normativo con il d.lgs. n. 14/2019 (c.d. codice della crisi di impresa e della insolvenza) il quale, nel rinviare alla disciplina del codice antimafia (e, segnatamente, ai rapporti tra sequestro e procedura concorsuale di cui agli artt. 63 e 64 d.lgs. n. 159/2011), adotta la logica c.d. regola-eccezioni, sancendo la prevalenza del sequestro finalizzato alla confisca sulle procedure concorsuali destinate, invece, ad avere la meglio sul sequestro conservativo e preventivo impeditivo.

L’attuale regolamentazione del c.d. traffico delle precedenze, che vede l’aprioristico predominio dell’interesse dello Stato su quello dei creditori a vedersi soddisfatti attraverso la procedura di liquidazione giudiziale, lungi dall’aver sopito i contrasti, risulta foriera di diverse criticità e contraddizioni destinate ad alimentare, anche in futuro, il dibattito tanto giurisprudenziale – come dimostrato, da ultimo, dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 40797/2023 – quanto legislativo,  potendosi richiamare in tal senso il recente progetto di riforma avanzato dalla Commissione Bricchetti che rimettendo mano al d.lgs. n. 14/2019 propone una modifica della c.d. regola della prevalenza limitandola solo ad alcune peculiari ipotesi di sequestro finalizzato alla confisca (es. art. 240 bis c.p.).


MERCOLEDÌ 3 LUGLIO, ORE 9.00-13.00


Tendenze contemporanee nella tutela penale dell'ambiente

coordinano Andrea R. Castaldo, Luca Masera e Carlo Ruga Riva


Vincenzo Di Terlizzi – Università di Foggia

L'ecocidio come quinto crimine internazionale? Le nuove prospettive di contrasto agli ecoreati


Il ricorso allo strumento penale, in vista della salvaguardia del bene dell’ambiente, costituisce ormai un’opzione imprescindibile.

Tale consapevolezza travaglia il legislatore italiano, in prima linea nella strategia di contrasto agli ecoreati e alle organizzazioni criminali che di questi fanno il loro core business. All’impegno su base locale fanno da pendant gli sforzi delle organizzazioni regionali, in particolare l’Unione Europea, orientati all’armonizzazione delle discipline dei singoli sistemi nazionali. Ciononostante, permangono alcune criticità. L’interconnessione che caratterizza i sistemi naturali rende inadeguato il ricorso a soluzioni territorialmente circoscritte e fa brillare la necessità di implementare il sistema sanzionatorio con l’aggiunta di tutele di matrice internazionale. Partendo da queste premesse, l’intervento illustra il dibattito relativo all’introduzione del crimine di ecocidio e alla possibile estensione delle competenze della Corte penale Dell’Aja in materia di crimini ambientali.


Gianluca Ruggiero Università di Bari

Le cappe di immunità come reazione all’istanza antagonista dell’ambiente. Lo scudo penale dell’ex Ilva


Diritto alla salute, al lavoro, alla sicurezza nei luoghi di lavoro, all’ambiente e al territorio, sono le articolazioni e il retroterra di una vasta richiesta politica di soddisfazione dei bisogni reali ed essenziali delle persone e di partecipazione al processo economico in un’ottica di democrazia partecipativa effettiva. Si tratta di istanze antagoniste alle posizioni economico-giuridiche dominanti. Istanze che si ispirano all’uguaglianza e alle libertà sostanziali di cui agli artt. 2 e 3 Cost., e si sostanziano attraverso il controllo e le limitazioni sullo svolgimento delle attività produttive e sull’esercizio del potere di fatto a queste connesso: la libertà di perseguimento e appropriazione del profitto privato non deve essere indiscriminata.

Le istanze antagoniste, come interessi diffusi, si sono fatte portatrici negli anni di un nuovo sistema di responsabilità per fatti connessi a certe forme e attività di conseguimento del profitto non democraticamente controllato, che per decenni ha goduto di un rilevante grado di immunità dal processo di criminalizzazione, nonostante l’intrinseca dannosità che lo caratterizza.

Sul versante penalistico, gli interessi diffusi come l’ambiente hanno determinato una forte “pressione” sulle garanzie negative del sistema punitivo: “sfuma” il bene giuridico protetto; si fa più ampio l’uso del presupposto normativo, e non naturalistico, della responsabilità penale. Il rischio? Dinanzi ad un disastro ambientale, dovuto al collasso di un’organizzazione complessa, è facile cadere nelle drastiche semplificazioni della rete delle relazioni sociali, alla ricerca sempre del colpevole, di una causa determinante, di una norma di comportamento violata.

Ad un’espansione dell’universo della penalità, la reazione del potere legislativo è il “ripristino” delle antiche cappe di immunità, smascherate dalle istanze antagoniste.

Di fronte ad un rischio tecnologico non limitato in fase preventiva e a disastri ambientali per i quali, a causa di vuoti normativi e cappe di immunità è difficile irrogare una sanzione penale, bisogna prendere drammaticamente atto che i diritti fondamentali alla salute, ad un ambiente salubre, al lavoro e alla vita, sono ridotti ad interessi disponibili e derogabili.

Tra un potere legislativo, incapace di adeguate politiche industriali e congrui modelli produttivi a tutela dell’ambiente, e un potere giudiziario in funzione supplettiva, talvolta, con effervescenze creative, lo Stato di diritto dismette il suo primario ruolo di garanzia: rinuncia al controllo e alla gestione politica dei processi produttivi a forte impatto ambientale e sociale; assume le vesti del mero assertore del massimo sviluppo economico, anche quando è insostenibile. La tutela dei diritti fondamentali, cogente ed inderogabile, in uno Stato costituzionale personalista è messa in discussione.

Al modello politico e normativo dello Stato di diritto, si va sostituendo così una nuova cultura, flessibile, fondata su doveri condizionati e fungibili, dove gli ordini e le proibizioni assolute sono un retaggio arcaico, da rimpiazzare con uno ius dispositivum, con un’area inter ordinamentale fatta di norme derogabili. La tutela dei diritti arretra: è mera condizione di principio. Si creano, allora, ampi spazi derogatori che rimandano a ordinamenti speciali, finalizzati alla gestione privatistica di beni giuridici collettivi o diffusi in cui la principale fonte del diritto viene a trovarsi fuori o al di sopra dello Stato. In estrema sintesi, la bulimia normativa dei decreti salva Ilva e lo scudo penale: la possibilità di “giocare” con le proprie leggi una partita che per le vittime, portatrici di un interesse diffuso, appare persa sin dall’inizio. Un ordinamento, quello creato per l’ex Ilva, nel quale sono inserite aree di liceità garantite dall’utilità economica e sul quale convergono poteri sregolati che hanno nel profitto privato e nell’auto-accumulazione le uniche regole.

È l’illegalismo dei diritti: non la trasgressione di un divieto, ma una sottile e raffinata tecnica di curvatura del diritto sulle proprie esigenze. In altri termini, il c.d. scudo penale ad Ilvam ossia una cappa di immunità, una presunzione assoluta di diligenza iuris et de iure che preclude contestazioni a titolo di responsabilità colposa per i soggetti apicali dell’impresa all’interno del perimetro della più grande acciaieria d’Europa.



Temi attuali di diritto penale dell’economia

coordinano Francesco Cingari, Luigi Foffani, Marco Gambardella e Vincenzo Mongillo


Megi Trashaj - Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

La forza deterrente della norma penale nei confronti dei white collar criminals


I molteplici interventi normativi succedutisi, perlomeno negli ultimi trent’anni, in materia white collar crime mostrano come le devianze del settore economico-organizzativo-imprenditoriale siano percepite a livello sociale come endemiche e altamente dannose rispetto a una molteplicità di beni giuridici tutelati dall’ordinamento.

A tali preoccupazioni la governance pubblica risponde con la tecnica della overcriminalization, dimostrando di attribuire particolare valore, ai fini preventivi dell’illecito del colletto bianco, a una delle molteplici funzioni della pena cioè quella della deterrenza, idea che trova fondamento in argomentazioni filosofiche secolari.

Considerato però che l’arsenale punitivo statale incide sui diritti fondamentali della persona, la più recente letteratura pone in evidenza che per ogni normativa potenzialmente afflittiva delle prerogative del singolo debbano valutarsi le concrete chances di successo rispetto agli obiettivi che con essa si intendono perseguire. È in tal senso che si pone quindi la necessità di verificare se le politiche fondate sulla deterrence abbiano una buona possibilità di riuscita oppure se, al contrario, debbano preferirsi tecniche preventive diverse – anche in seno allo stesso diritto penale – per il raggiungimento della (pur) vitale esigenza di tutela dei beni giuridici.

Nell’ambito di quest’indagine meritano di essere valorizzati i più attuali stimoli provenienti dalle scienze empiriche. Esse offrono diversi elementi in controtendenza rispetto alla linearità tra la minaccia di una pena e il comportamento legalmente conforme del colletto bianco.


Marco Mazzullo Università di Catania

Adeguatezza ed attualità del sistema sanzionatorio per gli enti: la sfida della messa alla prova


Con l’entrata in vigore del d.lgs. 231/2001 il legislatore italiano ha preso atto dell’intrinseca inerenza del rischio-reato alla realtà degli enti, soprattutto quelli strutturalmente concepiti per la produzione di profitti.

Per tale ragione ha configurato una peculiare forma di responsabilità delle persone giuridiche fondata sull’organizzazione colposamente inadeguata a prevenire la commissione di reati nel proprio interesse o vantaggio.

Tale forma di responsabilità è sorretta da una finalità preventiva, la quale si articola, in prospettiva ante delictum in direzione di orientamento culturale e di stimolo al bilanciamento dei diversi interessi in gioco, ed in prospettiva post delictum in direzione riparativa e riorganizzativa.

Per far fronte alla suddetta ratio di politica criminale il decreto legislativo contempla tre differenti tipologie di sanzioni: 1) finanziarie (sanzioni pecuniarie e confisca); 2) strutturali (sanzioni interdittive e commissariamento giudiziale); e 3) stigmatizzanti (pubblicazione della sentenza di condanna).

Il presente scritto, nella sua prima parte, intende operare, a distanza di più di vent’anni dall’entrata in vigore del decreto, un’analisi dell’apparato sanzionatorio vigente allo scopo di valutarne l’attualità, nonché l’adeguatezza e l’efficacia in relazione ai fini perseguiti.

La seconda parte dell’elaborato è, poi, dedicata alla verifica della sussistenza, de lege lata, di spazi per applicare la messa alla prova agli enti, e, de iure condito, alla formulazione di talune proposte di riforma finalizzate a valorizzare la funzione rieducativa della pena anche rispetto alle persone giuridiche.


Francesco Manfrin – Università degli Studi di Milano

La giustizia riparativa nel sistema degli enti tra utopia e strade percorribili


La crescente centralità nel dibattito scientifico che contraddistingue la “Restorative Justice” è giustificata anche dall’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento di una disciplina organica in materia di giustizia riparativa, ad opera della riforma Cartabia (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, artt. 42 ss.).

Il nuovo paradigma, sottostante all’innovativa opzione legislativa, pone una serie di rilevanti questioni di sistema e consente di interrogarsi anche sulle possibili intersezioni con la disciplina della responsabilità amministrativa da reato degli enti ex d. lgs. n. 231 del 2001, giacchè il Riformatore ha inteso estendere la portata della nuova normativa anche all’ente, sia quale “persona indicata come autore dell’offesa” (Relazione illustrativa), sia quale “vittima” (art. 42, co. 2 d.lgs. 150/22).

La relazione intende approfondire le implicazioni che originano dalla scelta di coinvolgere le persone giuridiche all’interno del paradigma della “giustizia senza spada” senza che sia stata modificata la normativa di riferimento, il d.lgs. 231/2001. In particolare, si valuterà anzitutto la possibile e duplice interferenza: i) tra l’attuazione del programma riparativo e la realizzazione delle condotte riparative già previste dalla disciplina sulla responsabilità degli enti negli artt. 17 e 12 d.lgs. 231/2001; ii) tra il buon esito riparativo nel procedimento a carico della persona fisica autore del reato e la regola di autonomia della responsabilità dell’ente ex art. 8 d.lgs. 231/2001.

Verrà, quindi, posta l’attenzione sulle proposte di modifica elaborate dalla dottrina per adattare la normativa settoriale degli enti alla disciplina della giustizia riparativa.


Alice Baccin – Università di Verona

Algoritmizzazione dei mercati finanziari, abusi di mercato e criteri di imputazione all’epoca dell'high-frequency trading


I mercati finanziari rappresentano uno dei principali banchi di prova dell’intelligenza artificiale, caratterizzandosi per l’utilizzo diffuso di traders algoritmici – tra i più noti, i cd. High-Frequency Traders o “algoritmi ad alta frequenza” – capaci di svolgere migliaia di operazioni in ristrettissimi lassi di tempo e in assenza di controllo umano.

Da tempo, infatti, la finanza moderna ha elevato calcolabilità e prevedibilità a valori centrali del proprio modus operandi, scegliendo di relegare l’uomo al ruolo di “guardiano” (limitatamente consapevole) di sistemi che, pur se estremamente profittevoli nell’immediato, recano con sé importanti rischi per la stabilità dei mercati. Come ampiamente dimostrato nella prassi, gli algoritmi ad alta frequenza possono optare, nell’esercizio dei propri compiti, per la realizzazione di condotte in tutto e per tutto assimilabili alle fattispecie di reato più note in ambito finanziario – come l’abuso di informazioni privilegiate (art. 184 T.U.F.) e manipolazione del mercato (art. 185 T.U.F.) – alterando la regolarità delle operazioni e influenzando il normale andamento degli scambi con effetti tutt’altro che trascurabili.

Ciò premesso, partendo dalle questioni che maggiormente interessano il dibattito dottrinale sul rapporto tra intelligenza artificiale e diritto penale, la relazione mira a fare il punto sulla ricerca modelli di imputazione possibili per gli illeciti commessi dagli algoritmi ad alta frequenza, tenendo conto delle peculiarità del settore finanziario, esaminando la morfologia delle nuove forme di abuso del mercato algoritmico, e delineando alcuni percorsi possibili, anche alla luce delle novità contenute nell’AI Act.


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